L’America spende, ma intaccando i risparmi e indebitando le famiglie: quali rischi per l’export UE e italiano?

Nel frattempo, da Bruxelles, il commissario europeo Paolo Gentiloni rassicura: nessuna guerra con Washington sul fronte incentivi, ma impegno a una più forte sovranità energetica e industriale aumentando aiuti di Stato e creando fondi comuni di garanzia. La Commissione von der Leyen e il governo Meloni non dovrebbero sottovalutare quanto sta avvenendo nel mercato statunitense, dove il debito privato delle famiglie è cresciuto fino a sfiorare i 19.000 miliardi di dollari a fronte di un calo su base annuale dello stock di risparmio di 1370 miliardi di dollari.


Questo è sintomatico di due fattori: uno più positivo, ossia che il ceto americano medio ha fiducia nei confronti del futuro e continua a sostenere la dinamica dei consumi, comprese le importazioni dal vecchio Continente, e quindi dall’Italia; e l’altro più negativo, corrispondente a una situazione salariale che rende meno agevole, rispetto al passato, la formazione di risparmio e induce di contro un numero maggiore di nuclei familiari a iniziare ad attingere alle proprie riserve bancarie e ad accentuare il ricorso all’indebitamento per la spesa domestica corrente.

In termini aritmetici, tra minore risparmio immobilizzato e maggior debito contratto, ammonta a circa 4000 miliardi di dollari la spesa per consumi delle famiglie americane non sostenuta da una corrispondente dinamica dei redditi reali correnti.

D’altronde, proprio nelle settimane scorse il Presidente dell’amministrazione federale Joe Biden, plaudendo alle più aggiornate rilevazioni statistiche che indicavano il minimo storico della disoccupazione e la crescita delle nuove opportunità occupazionali, non poteva tuttavia fare a meno di constatare come il tasso di sviluppo del potere d’acquisto reale dei salari avesse cominciato a imboccare la strada di una certa moderazione. Frutto quest’ultima anche delle politiche della Federal reserve, ossia la Banca centrale statunitense, volta a contenere le tendenze e tensioni inflazionistiche incoraggiando l’aspetto della produttività a discapito di quello orientato all’assunzione di nuovi o maggiori debiti.

Tuttavia, se i redditi correnti delle famiglie americane medie continueranno a crescere a ritmi meno sostenuti di quelli del tasso d’inflazione, appare evidente anche ai non addetti ai lavori che, prima o dopo, la propensione ai consumi e agli a acquisti di beni e servizi inizierà a calare in misura corrispondente.

Con conseguenti riflessi su economie come quella dell’Europa, intesa come UE, e dell’Italia che, per bilanciare gli effetti previsti delle politiche domestiche di austerità e di rigore fiscale associato a minore interventismo pubblico, hanno puntato la maggior parte degli sforzi incentivanti sul versante delle esportazioni verso Paesi terzi. Sotto quest’ultimo profilo, i mercati d’oltre Atlantico hanno sempre costituito un approdo sicuro e privilegiato, poiché caratterizzati da alti livelli produttivi e salariali in grado di coniugare i tassi di crescita del PIL tipici di un’economia emergente con lo “storico” emblematico delle economie più solide e mature.

Un binomio andato del tutto in corto circuito in Europa, se si fa eccezione per la Germania federale, e soprattutto in Italia. Dove alla continuità dei sostegni all’export dovrebbe accompagnarsi una strategia che dedichi analoghi livelli di sensibilità e di attenzione all’obiettivo di accrescere il potere d’acquisto delle famiglie medie attraverso piani di maggiore aderenza dei redditi alle spinte di una inflazione importata (tramite la defiscalizzazione delle maggiori spese, delle buste paga e del salario integrativo di produttività) e contestuali programmi coordinati di sostegno alla reindustrializzazione e alla ricollocazione di settori storici e distintivi della capacità di fabbricare del vecchio Continente e del Belpaese.

Una consapevolezza che ha iniziato a farsi strada nelle Istituzioni di Bruxelles (ma non ancora del tutto a Francoforte sede della Banca centrale europea) e, ci auguriamo, pure in quelle di Roma. Tanto che, intervenendo a Davos in Svizzera al world economic forum, il Vice di Ursula von der Leyen e commissario Paolo Gentiloni ha rassicurato il pubblico sul fatto che Bruxelles non intende innescare scivolose guerre commerciali o a suon di sussidi nei confronti di Washington, però nello stesso tempo è decisa a strutturare una UE dotata di maggiore sovranità dall’energia alla manifattura, sia potenziando il regime e i margini degli aiuti statali, concedibili dai singoli governi in ambiti oggi molto discussi come la riconversione ecologica delle abitazioni (da incentivare assicurando la neutralità dei costi delle famiglie e rinnovando gli strumenti di finanza green del settore bancario), sia creando nuovi e maggiori fondi comunitari di garanzia e di raccolta mutualistica dei capitali sull’esempio del recovery fund.

Perché l’America resta sì un grande compratore di made in UE e in Italy, ma l’Europa deve tornare a riassorbire una quota maggiore di beni prodotti, riscoprendo – perché no – le proprie radici fondate sul “modello Olivetti” molto evocato idealmente ma troppo spesso accantonato all’atto pratico.

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