
Meloni riduce la pace fiscale a mini tregua che è già scontro con i sindaci
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La pace fiscale rimane un passaggio ineludibile per favorire l’emersione dell’intera base economica, reddituale e patrimoniale, e per riattivare un patto leale con l’erario valevole per il futuro. Ma essa porterà in dote al massimo 70 miliardi e non subito nei primi 12 mesi di legislatura. Per questo i reali margini di manovra saranno in capo alla Eurotower di Francoforte e alle garanzie che Lagarde sarà in grado di concedere ai nostri buoni del tesoro poliennali.
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Se fossero soltanto i diretti interessati a dirlo, ossia i debitori, sarebbe un conto, e si tratterebbe di una chiave di lettura decisamente molto parziale. Sta di fatto che ad ammetterlo è lo stesso Stato, per il tramite della propria magistratura contabile che ai sensi della Costituzione è la corte dei conti: su ogni cento euro di crediti vantati dalle pubbliche amministrazioni ai vari livelli istituzionali e territoriali, appena 3 possono essere effettivamente portati all’incasso. Non si tratta di uno scenario che si è aggravato in seguito alla pur gravissima emergenza prima pandemica e poi bellica: già prima dello scoppio della pandemia da coronavirus, al massimo il tasso di recupero delle somme contestate ai contribuenti del Belpaese non superava il 6 per cento del totale.
Il governo Draghi non ha ulteriormente prorogato la rottamazione delle cartelle esattoriali, con la conseguenza del rischio di porre fine all’esistenza produttiva e occupazionale di alcune centinaia di migliaia di imprenditori. Nonostante gli allarmi preventivi lanciati da tributaristi e categorie, i ministri economici Daniele Franco e Giancarlo Giorgetti non hanno introdotto alcuna correzione per consentire procedure agevolate di abbattimento concordato del debito connesso a situazioni involontarie di crisi spesso aggravate da emergenze internazionali.
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