L’amministrazione di Joe Biden ha messo a segno un risultato, sul mercato del lavoro, al di sopra delle attese degli analisti e tale, pertanto, da giustificare la prosecuzione della linea di politica monetaria disinflazionistica da parte della Federal reserve, la Banca centrale statunitense diretta da Jerome Powell.
L’ufficio statistico del dipartimento federale competente ha censito, con riferimento al solo mese di aprile, 253.000 nuove assunzioni che rafforzano il saldo netto positivo in termini occupazionali e porta il tasso di disoccupazione aggiornato al 3,4 per cento. Un valore, quest’ultimo, di poco superiore alla metà del livello medio che si continua a riscontrare nell’area dell’Unione Europea con specifico riferimento al gruppo degli Stati aderenti all’Euro, dove la percentuale dei senza lavoro si attesta infatti sul 6,5 per cento, con picchi ancora più elevati nel Sud del vecchio Continente, Italia compresa.
Il divario tra le due sponde dell’Atlantico si approfondisce però non solo dal punto di vista del confronto tra i tassi ufficiali di quanti sono attivamente alla ricerca di un lavoro, poiché a marcare distanze e differenze sono anzitutto le diverse architetture istituzionali di Washington e Bruxelles, che consentono a Biden una capacità, tempestività e adeguatezza d’azione non alla portata dell’omologa Ursula von der Leyen, la cui Commissione è un organismo puramente intergovernativo.
In secondo luogo, risulta essere decisiva la diversa composizione sociale, che vede gli Stati Uniti d’America vantare una popolazione giovanile e un tasso di fertilità e natalità che sorpassano gli andamenti corrispondenti in atto negli altri Paesi e Continenti caratterizzati da condizioni macroeconomiche analoghe di ricchezza e di benessere.
A ciò si aggiunga, in misura non secondaria, la circostanza che l’inflaction reduction act promulgato da Joe Biden è soltanto l’ultimo di una lunga serie di provvedimenti coordinati che, dalla fase immediatamente post pandemica a oggi, ha permesso al Governo federale di immettere nel sistema dell’economia reale un complessivo flusso di liquidità, in forma soprattutto di sussidi alla produzione industriale, alla decarbonizzazione e ai redditi lavorativi, pari a 3000 miliardi di dollari incentrati sul capitolo della manifattura e della transizione energetica e digitale condotta in maniera non ideologica.
Al confronto con il 1990, l’anno che ha segnato il cambiamento del paradigma globale a seguito del crollo delle economie filo sovietiche, gli Stati Uniti d’America hanno aumentato la propria forza lavoro di un terzo, mentre Europa e Giappone soltanto di un decimo, mentre l’apporto della componente di immigrazione regolare è pari al 17 per cento del totale delle persone occupate, a fronte di un vecchio Continente dove, soltanto con riferimento alla Germania, da qui al 2035 – al netto dei lavori spiazzati dalle applicazioni di intelligenza artificiale – mancheranno all’appello all’incirca 7 milioni di addetti fra agricoltura, reparti di fabbrica, servizi alla persona e costruzioni.
L’Europa è chiamata a confrontarsi con scenari nei quali l’alto numero dei Neet, coloro cioè che oltre a non ricercare attivamente alcuna occupazione non studiano né si perfezionano in percorsi formativi, tende in modo praticamente inevitabile a rendere meno attendibili i dati ufficiali su tassi occupazione e disoccupazione, ancor più in ragione della circostanza che la crisi familiare e della natalità riduce la base della popolazione in età lavorativa e attiva.
Inoltre, dato che diventa oramai drammatico nel nostro Paese, il non particolarmente brillante livello di produttività delle forze di lavoro favorisce sì la tendenza a operare più assunzioni nell’immediato per poter produrre uno stesso bene o servizio, tuttavia questo comporta l’emergere sempre più prepotente del fenomeno del cosiddetto poor work, l’occupazione povera che interessa oramai un assunto su dieci, a causa altresì dei molto bassi livelli di sostegno ai redditi lavorativi meno alti e alla capacità produttiva.
Infine, a differenza di quanto avviene negli States, in Europa le aziende si ristrutturano non attraverso i fallimenti, cosicché mentre oltre Atlantico l’occupazione perduta nelle maggiori compagnie viene rapidamente riassorbita, qui da noi la fase negoziale per la ricollocazione degli esuberi viene diluita all’infinito generando assistenzialismo non risolutivo e scoraggiando la messa a punto di interventi puntuali di modernizzazione di processi e prodotti aziendali.
Vicende che richiederebbero – il condizionale è d’obbligo – un cambiamento culturale in grado di precedere quelli normativi.