Stoccolma, si sa, è una città oltre che ridente, famosa per prestare il proprio nome alla famosa sindrome, ossia la patologia psicologica che porta un soggetto oppresso, o preso in ostaggio, a sviluppare sentimenti quasi di solidarietà o di complicità, più o meno inconscia, verso l’oppressore. Si trattava ciò premesso di un rischio evidente per l’Italia, i cui governi di ogni colore politico amministrativo, non di rado nel passato, hanno finito con il dire grazie a quelle Istituzioni comunitarie che li tenevano in ostaggio con i parametri su deficit e passivo.
Sta di fatto che, nella situazione specifica, il nostro Paese ha giocato dalla propria parte con i soli due fattori a disposizione, uno più politico l’altro più tecnico procedurale, di una certa rilevanza: il primo è una maggiore assonanza tra gli esecutivi di Roma e di Stoccolma, entrambi di centro destra con una forte componente sovranista e patriottista (essendo il vocabolo del populismo andato oramai fuori moda); il secondo è rappresentato dalla circostanza che vede il voto dell’Italia decisivo per introdurre nell’ordinamento UE la riforma del famoso Mes, il meccanismo europeo di stabilità un tempo soprannominato fondo salva Stati.
Mai ratificato dal Governo di quasi unità nazionale di Mario Draghi per il veto della Lega e di una parte di Forza Italia, questo strumento finanziario era fino a qualche mese fa impantanato fra la Corte costituzionale di Berlino e il Parlamento di Roma: dopo l’avvenuto verdetto tedesco favorevole, tutto è nelle mani del parere del Governo Meloni e della deliberazione di Camera e Senato.
I commissari di Bruxelles e la BCE, per espressa invocazione della Banchiera centrale Christine Lagarde, chiedono che il recepimento italiano del Mes venga adottato in tempi certi e rapidi, poiché in esso sono contenute importanti innovazioni che riguardano non soltanto l’attivazione di piani di aiuto e sostegno agli Stati membri in difficoltà finanziaria nella zona Euro, ma altresì la possibilità di applicare prime formule di solidarietà nel settore bancario per renderlo più resiliente a livello comunitario nel caso di crisi che coinvolgano singoli istituti creditizi.
Un meccanismo che non ha mai convinto il nostro Paese, neppure quando venne adottato, in piena prima tragica ondata pandemica, il filone di finanziamento esclusivamente volto a potenziare i servizi sanitari, che per l’Italia si sarebbe tradotto in un prestito molto agevolato – e senza contropartite di austerity – fino a 37 miliardi di euro, per la cui adesione i termini sono scaduti lo scorso 31 dicembre, ma potrebbero essere in via eccezionale riattivati con decisione straordinaria della governance del Mes (dove pure Roma è ben rappresentata con poteri incisivi).
La sfida di Giorgetti, su delega di Giorgia Meloni, rimane quella di barattare il recepimento dell’ex fondo salva Stati con una versione più edulcorata della revisione del patto di stabilità, soprattutto su due punti dove il terreno di confronto e scontro tra Sud e Nord Europa è piuttosto aspro, e come la vicenda della direttiva sulle case green ha insegnato non è detto che un Governo sebbene dello stesso colore politico abbia necessariamente identità di vedute con i nostri interessi nazionali.
Il primo punto è relativo alla misura della correzione di bilancio da apportare annualmente in relazione al PIL: l’asse tedesco olandese spinge perché essa sia più alta dello 0,5 per cento e arrivi all’uno per cento. Non si tratta di cifre piccole, poiché in ragione del reddito nazionale italiano si tratterebbe di vincolare al risanamento delle finanze pubbliche 15 miliardi anziché 7, e abbiamo visto come nel Def infine votato proprio 7 siano i miliardi effettivamente liberi per finanziare la riduzione a tempo del cuneo fiscale e la prima tranche del decreto sull’Irpef.
L’adozione di una versione piuttosto che di un’altra del futuro fiscal compact UE determinerà se avremo o no spazi di bilancio per politiche discrezionali di tipo proattivo per risollevare un ciclo economico stabilizzando lo stesso al rialzo dopo che l’ISTAT ha certificato una variazione trimestrale del prodotto interno in crescita dello 0,5 con la prospettiva che il 2023 si concluda a quota più 1,8 per cento.
Non deve però essere dimenticato il secondo punto, che consiste nella richiesta di Roma di scomputare, ossia esonerare ed escludere dal conteggio dei parametri su deficit e debito la quota di spesa rappresenta dagli investimenti pubblici necessari a cofinanziare il Pnrr per rendere pienamente attuabile il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Uno snodo molto sensibile, poiché è sulla partita dei non rimossi vincoli sui cofinanziamenti che, negli scorsi esercizi di bilancio e ben prima dello scoppio della pandemia, molti fondi strutturali assegnati da Bruxelles all’Italia sono rimasti inutilizzati e hanno dovuto formare oggetto di successivi negoziati per poter essere di volta in volta utilizzati senza gli originari stringenti vincoli contabili.
La ragione è semplice: i fondi del Pnrr per la quota relativa ai prestiti agevolati consentono all’Italia di fronteggiare un tasso di interesse passivo al massimo dell’uno e mezzo per cento, mentre per il reperimento dei fondi occorrenti al cofinanziamento del recovery plan – stante il loro rientro nel patto di stabilità – i tassi a carico del bilancio statale salgono al 5.
Sulle richieste del governo Meloni pesano però alcune incognite: le previsioni funeste di Goldman Sachs sul medio periodo, che delineano uno spread di nuovo sopra i 200 punti base spinto all’insù dal rincaro dei tassi della BCE e dalle incertezze sull’attuazione delle riforme connesse ai finanziamenti UE del recovery plan (viene data oramai come scontata una realizzazione solo parziale del Pnrr); e le ataviche croniche lentezze a dare seguito ai provvedimenti di spesa già ora autorizzati e vigenti sul piano nazionale.
I dati, pubblicati dal portale Open polis, risultano nettamente impietosi: tra legge di stabilità e di bilancio per il 2023 e decreto aiuti quater contro inflazione e rincaro delle bollette, i decreti attuativi necessari sono in totale oltre 200. Di questi, il nuovo esecutivo di centrodestra ne ha varati appena 24 mentre 39 risultano già scaduti ma si potranno comunque recuperare in futuro.
Tra i provvedimenti a oggi mancanti all’appello, soltanto per dare alcuni esempi, vi sono quelli essenziali a concretizzare la carta della spesa per le famiglie con reddito annuo fino a 15.000 euro, ed escluse dal reddito di cittadinanza, e il fondo contro la povertà alimentare da sostenere con il conferimento di derrate non ancora scadute da parte della grande distribuzione. La strada appare in salita inoltre per il bonus psicologo, misura strategica soprattutto nella fase post pandemica, e per le card Cultura giovani e del Merito, che nell’ultima legge di stabilità hanno sostituito il bonus “App18” del fu governo Renzi.
A Stoccolma si è quindi concluso con un sostanziale pareggio il primo round negoziale, e staremo a vedere se Bruxelles sarà convinta della buona fede di palazzo Chigi alla luce proprio di atti come il decretone Lavoro appena approvato.
Il direttore editoriale Alessandro Zorgniotti