Un cuneo fiscale molto spigoloso per il Governo: Def senza maggioranza qualificata alla Camera

Intanto Bruxelles gela l’Italia: gli investimenti del Pnrr rientreranno nei conteggi del patto di stabilità. Un assai vecchio copione che nel passato ha contribuito, alla voce deicofinanziamenti nazionali e regionali, a rendere non utilizzabili molte risorse comunitarie dei fondi strutturali.

Il capitolo del cuneo fiscale ha rappresentato, in triste assonanza con tale termine, uno spigolo contro cui, numericamente, è andata a sbattere la maggioranza governativa uscita dalle urne elettorali dello scorso settembre e culminata nella formazione del Governo Meloni.

Numericamente, si è detto, poiché sul piano politico sia la Premier Giorgia Meloni, in missione a Londra dal collega e omologo Rishi Sunak, sia il ministro Giancarlo Giorgetti, responsabile del Documento di economia e finanza, hanno nella maniera più categorica smentito l’esistenza di qualsiasi malessere interno alla coalizione guidata da Fratelli d’Italia.

Lo scivolone è avvenuto alla Camera dei deputati, in occasione del voto sulla risoluzione, collegata al Def, con cui l’esecutivo di palazzo Chigi chiedeva l’autorizzazione a procedere a uno scostamento di bilancio nella misura di tre miliardi di euro per dare attuazione al capitolo dedicato all’abbassamento del costo del lavoro tramite la diminuzione del cuneo fiscale e contributivo per la quota gravante sulle buste paga dei lavoratori dipendenti a più basso reddito.

Trattandosi di un intervento da finanziare in deficit, con lo strumento della fiscalizzazione degli oneri sociali, per aumentare il salario netto in una misura limitata nel tempo da maggio a dicembre di quest’anno – con la speranza che nel frattempo le altre voci dell’inflazione diverse dall’energia si attenuino e la produttività lavorativa risalga -, l’ordinamento in vigore dal 2012 prescrive che la relativa decisione debba essere assunta da ciascun ramo del Parlamento a maggioranza qualificata assoluta dei 400 Deputati e dei 200 Senatori.

Cifra che a Montecitorio non è stata raggiunta, essendosi i numeri fermati a 195 parlamentari della Camera, 6 in meno di quanti sarebbero stati necessari per fare procedere senza intoppi – in vista del Consiglio straordinario dei Ministri convocato per lunedì Primo Maggio a palazzo Chigi – una misura di politica retributiva non inflazionistica sostenuta e sponsorizzata in prima persona dalla Premier Meloni come indicativa della volontà di prestare attenzione alle categorie più trafitte dai rincari del costo della vita in atto oramai dalla fine del 2021.

I più autorevoli esponenti della coalizione di centrodestra hanno attribuito un simile inciampo, assai grave nel merito, a questioni squisitamente procedurali dovute, da una parte, alla circostanza del doppio ruolo di molti parlamentari in missione nelle loro funzioni di Governo, d’altra parte alla inesperienza connessa alla necessità di fare i conti con la novità della ridotta composizione del Parlamento dopo la riforma costituzionale che ha ridotto da 945 a 600 il numero degli eletti.

In tal senso, pur premesso il forte disappunto per quanto avvenuto, da Londra la Premier Meloni ha inteso rapidamente derubricare l’accaduto, assicurando che l’attuazione del Def non subirà rinvii rispetto alla data simbolo della festa dei lavoratori. In parallelo, il titolare del dicastero del MEF Giancarlo Giorgetti, nella riunione interministeriale convocata d’urgenza dal Vicepremier Antonio Tajani, ha portato a rapidissima approvazione una modifica alla relazione di accompagnamento al documento di economia e finanza: un passaggio burocraticamente necessario poiché la normativa di riferimento del Def non ammette, in caso di respingimento di una risoluzione a esso abbinata, che si possa rivotare il medesimo testo nelle aule parlamentari.

Mentre ripartirà oggi la maratona, non solo alla Camera ma anche al Senato, per centrare l’appuntamento con il “decretone Lavoro” del Primo Maggio, un altro spigolo, se possibile più doloroso del cuneo, è in arrivo da Bruxelles. Dove la Commissione europea ha statuito che gli investimenti funzionali a realizzare le previsioni e gli obiettivi del Pnrr, dovranno essere conteggiati all’interno dei parametri per la determinazione dei livelli di deficit e di debito pubblico in relazione al prodotto interno lordo.
In pratica, la UE vincola dentro il fiscal compact quelle stesse risorse che in origine aveva liberato con l’obiettivo di sostenere la ripresa post pandemica dei singoli Stati membri.

Uno scenario che ha destato il disappunto di Giorgetti: “Stante una simile decisione, l’Italia dovrà rivedere i propri propositi di investimento, cercando di privilegiare quegli interventi in grado di massimizzare i benefici di ritorno sulla base economica produttiva del Paese, e questo sarà possibile solo individuando gli ambiti capaci di generare un più alto valore aggiunto sulla media”.

Inutile e superfluo precisare che il nostro Governo aveva richiesto che gli investimenti derivanti dal Pnrr, e a questo funzionali, venissero completamente esonerati dal calcolo dei due parametri su disavanzo e passivo dello Stato, anche se una anomalia di questo tipo non rappresenta purtroppo una novità nella storia recente dei vincoli posti alla gestione dei fondi UE anche anteriormente all’avvento del recovery fund. Basti considerare che una parte del più generale mancato utilizzo o sottoutilizzo dei finanziamenti strutturali messi a disposizione da Bruxelles dipende proprio dalle limitazioni connaturate al patto di stabilità – poi sospeso nei tre anni di covid e post virus – a danno della flessibilità delle risorse che lo Stato e gli enti locali devono stanziare a titolo di cofinanziamento proprio per avere accesso agli strumenti comunitari di sostegno.

Sul terreno pratico, dal prossimo anno, ciò significa che gli effetti espansivi del Pnrr saranno ogni volta controbilanciati dall’obbligo di procedere a parallele manovre correttive dell’ordine di 14 miliardi per ciascun esercizio di bilancio.

Il direttore editoriale Alessandro Zorgniotti

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