Le manovre di contenimento della spesa pubblica corrente, con l’obiettivo di ridurre il deficit e quindi il bisogno dello Stato di contrarre ulteriore debito, non sono state assolutamente efficaci a ridurre quest’ultimo. Che infatti nel mese di febbraio è salito a un totale immobilizzato di 2772 miliardi, a fronte dei 2750 che erano stati censiti in riferimento al mese di gennaio.
A crescere sono stati il fabbisogno mensile e le disponibilità liquide dell’ex ministero del Tesoro oggi incorporato nel dicastero dell’economia e delle finanze. La ragione di ciò è purtroppo semplice: ogni Governo, di qualsivoglia colore e indirizzo politico amministrativo, tende a raccogliere sui mercati dei capitali più liquidità di quanta gliene occorra per il pagamento delle spese immediate.
Per poter procedere a ciò, può agire su due leve: la propria credibilità e autorevolezza, che era ai massimi con il precedente Governo di Mario Draghi, ovvero la leva dei rendimenti, che accrescono l’onere del servizio del debito, in altre parole gli interessi passivi, e portano al deprezzamento del valore dei titoli obbligazionari pubblici in portafoglio ai loro sottoscrittori e acquirenti sul mercato secondario.
Se il rastrellamento di risorse liquide in eccedenza era divenuto prassi nell’epoca del quantitative easing, inaugurata da Mario Draghi a Francoforte al timone della BCE prima di traslocare a palazzo Chigi, adesso e a seguito della fine del tempo dei tassi zero, o addirittura negativi, in forza del relativamente breve periodo di vita dei titoli di Stato, di poco superiore ai sette anni, e della scadenza di oltre 625 miliardi di bond statali da rinnovare – per poter fare fronte alle uscite correnti del bilancio pubblico – l’imperativo è attendere la conclusione della stretta monetaria di Christine Lagarde prima di riprendere il ritmo degli approvvigionamenti.
Nel frattempo, però, le cedole che maturano vanno corrisposte ai risparmiatori e agli investitori istituzionali, che oltre frontiera, in particolare dopo il cambio della guardia politica a palazzo Chigi, con l’avvento trionfale di Giorgia Meloni, iniziano a prendere caute distanze dai titoli Tricolore.
La riprova di ciò risiede nel calo che è stato registrato nel peso specifico della quota di passivo statale detenuto in mani estere: addirittura oltre otto miliardi in meno, in relazione al solo mese di dicembre, che non sono stati più rinnovati dai loro possessori alla scadenza. A determinare una crescita della diffidenza nei confronti del sistema Italia, oltre all’uscita di scena di Draghi come Premier, ha inciso altresì il contesto macroeconomico atlantico fortemente condizionato dalle scelte della Federal reserve, la banca centrale statunitense la cui missione di riportare stabilità nel meccanismo evolutivo dei prezzi trova – a differenza di quanto accade nella UE – il proprio bilanciamento nelle politiche fiscali dell’amministrazione Biden di immettere forti dosi di liquidità per sussidiare il rientro delle industrie in territorio USA. Mantenendo così in sostanziale equilibrio economia finanziaria e reale, traguardo lungi dall’essere raggiunto nel vecchio Continente.
Che il governo Meloni si sia convertito alla real politik del debito pregresso, sempre meno gestibile nonostante il basso livello dello spread fra i rendimenti delle obbligazioni BTP e Bund fra Italia e Germania, lo si è evinto dal merito della bozza di Def pluriennale che certifica tutta una serie di dati di fatto: la legge Fornero sulla riforma previdenziale del 2012 rimane vigente, la revisione del codice tributario sarà realizzata a invarianza di gettito, il rapporto tra fisco e contribuente rimarrà del tutto sbilanciato a favore del primo con una accelerazione impressa alle modalità di riscossione coattiva (solo in piccola parte temperata da una maggiore apertura sul fronte della possibilità di rateizzo dei ruoli esattoriali), e ogni sgravio e incentivo, dedicato al lavoro e al potere d’acquisto delle famiglie, sarà relegato nei confini della temporaneità.
Non va meglio per gli investimenti: si era sempre argomentato che, in virtù della avvenuta revisione della Costituzione con la quale fu introdotto il principio del pareggio di bilancio, sempre in era Monti, ogni emissione di obbligazioni statali o garantite dallo Stato avrebbe dovuto avere come destinazione un preciso progetto di spesa non corrente ma in conto capitale, per realizzare cioè un’opera infrastrutturale o di pubblica utilità. Nulla di questo precetto trova una concreta corresponsione nel Def: gli investimenti annessi al Pnrr languono, la spesa italiana sulle altre tipologie di fondi europei è ultima in UE per tasso di utilizzo e il famoso progetto di ponte sullo stretto di Messina è privo di effettiva copertura di bilancio.
Si era soliti argomentare che le politiche di austerità fossero il portato di governi non direttamente designati dal voto dei cittadini. Che dire adesso di questa fase inedita in cui le ristrettezze vengono interpretate e messe a terra da esecutivi espressione della coalizione uscita dalle urne?
Il direttore editoriale Alessandro Zorgniotti