IRPEF, nessun miracolo: appena 4 miliardi per finanziare la fase uno della delega fiscale

Chiunque si aspetti miracoli dal documento di economia e finanza appena adottato, così come dai provvedimenti appena varati per efficientare la governance e la gestione del Pnrr, o da quelli appena approdati in Parlamento come il disegno di legge di delega fiscale, farà meglio a togliere qualche zero alla voce dei benefici stimabili. Non sono preconcetti calcoli politici a determinare simili considerazioni, ma le semplici evidenze matematiche.


Già si è detto in merito al cuneo fiscale, di fatto una fiscalizzazione degli aumenti salariali per redditi da lavoro dipendente fino a 25.000 euro, che apporterà tra maggio e dicembre integrazioni in busta paga in misura da 30 a 41 euro al mese non a carico del datore di lavoro. Lo sconto sulla componente fiscale del costo del lavoro, rappresentata dalla quota degli oneri e contributi sociali gravanti sul lavoratore subordinato, avrà una vigenza limitata alla conclusione del 2023, nella speranza di una contestuale discesa dei livelli del tasso di inflazione.

Non troppo differente è il merito della più volte evocata revisione dell’IRPEF, secondo le linee guida racchiuse nel progetto della delega fiscale messo a punto dal viceministro Maurizio Leo: tutti i riflettori, in questo caso, sono accesi sulla fascia reddituale ricompresa fra 15.000 e 50.000 euro, sulla quale notoriamente grava l’incombenza di contribuire, secondo le stime delle organizzazioni sindacali del lavoro salariato e dei pensionati, al 90 per cento del gettito dell’imposta sul reddito delle persone fisiche.

La delega fiscale non entra nello specifico degli eventuali accorpamenti di aliquote e scaglioni, però da come questi saranno determinati dipenderà la misura del beneficio o della penalità a carico del singolo cittadino cosiddetto “non incapiente”. Attenzione però a immaginare cedolini più pesanti a partire dal 2024: già 6 anni fa, uno studio elaborato dalle associazioni dei commercialisti indicava con chiarezza che un punto di Irpef vale all’incirca quattro miliardi di euro, e ridurlo in corrispondenza della fascia di reddito prima ricordata apporta al contribuente una maggiore entrata annuale di 144 euro, ossia 12 euro al mese.

Dalle più recenti indiscrezioni, parrebbe appunto che l’attuale dote nelle mani del governo per finanziare la fase uno della delega Irpef corrisponda precisamente a 4 miliardi. Troppo pochi per pensare anche solo lontanamente a miglioramenti significativi di una pressione fiscale che, per ammissione stessa del Def governativo, nella migliore delle ipotesi sarà sempre prossima al 43 per cento del reddito nazionale.

Le difficoltà sul lato delle agevolazioni accordabili ai redditi, sia salariali che professionali e aziendali, altro non sono se non la rappresentazione plastica delle rigidità di una organizzazione burocratica e della spesa pubblica che fatica ad auto riformarsi. E qui veniamo alle dolenti note del Pnrr e dei fondi europei residuati dalla programmazione 2014-2020: di questi ultimi, residuano 9 miliardi che, se non verranno investiti entro quest’anno, dovranno essere restituiti a Bruxelles. La Cgia di Mestre, associazione delle piccole imprese artigiane del Nord Est, ha calcolato che da qui al 2026 dovranno essere spesi annualmente 42 miliardi. Se consideriamo, secondo le rilevazioni condotte dalla Banca d’Italia, che un progetto di investimento pubblico, del valore mediano di 5 milioni di euro, impiega 11 anni per essere progettato, appaltato, eseguito e collaudato, si può bene comprendere come neanche il pur contestato Codice Salvini di revisione delle opere pubbliche potrà imprimere le necessarie accelerazioni procedurali lungo l’arco dei 44 mesi che ci separano dalla scadenza del piano nazionale di ripresa e resilienza.

Esistono alcune proposte, come quelle elaborate dal leader di Azione ed ex ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda, che prevedono di riassegnare gran parte dei fondi, a rischio di inutilizzo o di sotto utilizzo, a capitoli come quello relativo a industria 4.0, un meccanismo di super e iper ammortamento delle spese di automazione, digitalizzazione, formazione effettuate dalle aziende, nel caso specifico esteso altresì alle voci relative all’ambiente e all’energia. L’obiettivo sarebbe quello di affidare al settore privato, in tal modo, una parte di quegli interventi di interesse sociale ed economico la cui attuazione in capo alle amministrazioni pubbliche, centrali e locali, potrebbe determinare ritardi nelle tempistiche.

Il direttore editoriale Alessandro Zorgniotti

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