Mai come in quest’ultimo triennio, precisamente dall’avvio della pandemia del 2020 a oggi, la sigla BCE è diventata dominante nei dibattiti televisivi, nelle discussioni domestiche e all’ora della pausa caffè. Eppure ancora qualche anno fa, come ha ricordato in più occasioni il Banchiere scrittore Beppe Ghisolfi nelle prefazioni ai propri Manuali editi da Nino Aragno, quelle tre lettere in serie creavano più di un punto interrogativo.
Adesso, la Banca centrale europea è entrata a fare parte del nostro lessico quotidiano, quasi più dei riferimenti al Governo italiano; ma non altrettanto avviene in merito alla conoscenza degli effetti reali delle decisioni assunte all’interno del grande palazzo di vetro di Francoforte guidato da Christine Lagarde. Specialmente in tema di tassi di interesse, il mitico costo del denaro che influisce sul livello di onerosità di un prestito assunto, piuttosto che sull’acquisto o perdita del valore capitale del titolo in cui è accantonato il nostro risparmio.
Le rilevazioni più aggiornate indicano una realtà dove l’alfabetizzazione finanziaria dovrebbe costituire, proprio per le premesse sopra ricordate, la cifra dell’impegno di ognuno di noi a informarsi ogni giorno. Il perché, è presto detto. Sono almeno 3 milioni e mezzo le famiglie che nel nostro Paese hanno contratto un mutuo per l’acquisto della proprietà della prima casa, cogliendo l’opportunità della precedente fase prolungata di bassi tassi incoraggiata da Mario Draghi come predecessore di Christine Lagarde; se a queste sommiamo quanti – tra lavoratori a reddito fisso e professionisti marginali – hanno sottoscritto formule di prestito personale o di credito al consumo, ecco che un nucleo familiare su quattro, nel Belpaese, si trova ad avere a che fare con prodotti i cui costi e prospettive di ripiano e rimborso sono condizionati dal livello e dalla struttura degli interessi.
È del 2020 un’indagine condotta dall’OCSE, l’organizzazione mondiale per lo sviluppo economico, in base a cui soltanto un nostro connazionale ogni quattro sapeva calcolare il saldo finale di una somma di denaro, a un determinato tasso, dopo un periodo quinquennale. Come se non bastasse, nella scorsa settimana è stato pubblicato il risultato di un sondaggio che indicava come un’alta percentuale di giovani sarebbe disponibile a comunicare a terzi le proprie coordinate bancarie nella prospettiva di aderire alle offerte che continuamente appaiono sulla Rete.
In un simile contesto, emerge in tutta evidenza come siano gli adolescenti, le donne – vittime di violenza economica – e le famiglie in condizione patrimoniale e reddituale più bassa, le categorie più vulnerabili alle criticità di una protratta congiuntura critica che racchiude in sé molti elementi strutturali di cui tenere conto.
Dal 2017 – anno della prima introduzione per via legislativa del concetto di educazione finanziaria – a oggi sono trascorsi 6 anni e 5 Governi; attualmente sono all’esame di Camera e Senato, nella legislatura avviata nello scorso mese di ottobre a seguito del voto politico anticipato, ben 4 progetti di legge, da parte di gruppi di maggioranza e opposizione, che puntano, sì con sfumature diverse ma con una pratica identità dei fini, a introdurre tale disciplina come obbligatoria nei CV degli studenti (e nella preparazione dei docenti).
Questo per un motivo elementare ma che deve essere recepito in pieno a livello politico normativo: mentre nelle categorie reddituali più agiate è più facile sentire parlare correntemente di educazione finanziaria, perché i risparmi godono di un’assistenza gestionale non autodidatta ma di tipo professionale, è ai livelli medi e medio bassi, e potenzialmente più esposti ai rischi della perdurante contingenza avversa, che i ragazzi possono apprendere con più facilità in orario scolastico i concetti dell’economia e della finanza, e di conseguenza trasmetterli ai genitori e tra le mura domestiche.
Esperienze come quelle di Abbecedario e Bignamino, che godono di un risalto oramai internazionale e globale, confermano come quest’ultima strada sia quella da percorrere da subito, proprio perché più agevolmente in grado di altre di arrivare con effetto immediato a molti milioni di utenti in media molto sensibili e ricettivi.
E siccome le risorse del PNRR, il piano nazionale di ripresa e resilienza, rischiano in parte di restare inutilizzate, e pertanto per le stesse il Governo sta studiando con la Commissione europea le modalità di un rinnovato indirizzamento delle medesime per evitare l’onta di doverle restituire a Bruxelles, perché non cogliere l’occasione per dare seguito alla brillante proposta, formulata dal Professor Ghisolfi all’indomani dell’insediamento del Governo Draghi a inizio 2021, di destinare un miliardo tondo tondo di euro all’educazione finanziaria? Magari con un grande programma transnazionale che coinvolga i Paesi dell’area balcanica occidentale – Albania e Macedonia del Nord – in preadesione all’Unione Europea e con cui la nostra economia è sempre più collegata e integrata dal punto di vista dei progetti aziendali e anche – come definiti dall’amico Professor Giovanni Cuniberti – di patrimoni di famiglia il cui potere d’acquisto e di investimento richiede di essere tutelato contro l’inflazione e contro sempre più insidiosi e complessi rischi “derivati”?