Nella pratica, con l’innalzamento graduale dell’età di pensionamento a 64 anni, viene al momento assicurata la continuità del regime retributivo, però il piano Macron stabilisce in contropartita la venuta meno della giungla dei 42 sistemi pensionistici speciali portato del corporativismo d’oltralpe e caratterizzati da particolari agevolazioni in termini di trattamento economico e di uscita anticipata dal lavoro.
Centinaia di migliaia di cittadini d’oltralpe sfilano nel centro di Parigi sfidando le forze di polizia contro la decisione del presidente Emmanuel Macron di applicare l’emendamento, di cui alla Costituzione francese, che consente di rendere vigente un provvedimento legislativo senza voto parlamentare.
Una decisione che il capo dello Stato del Paese cugino dell’Italia ha condiviso, in perfetto stile semi presidenziale, con la prima ministra centrista Borne, e che sarebbe stato giustificato dal rischio di vedere la riforma previdenziale messa in minoranza da un gruppo di possibili franchi tiratori che si anniderebbero fra i repubblicani, ossia la formazione di centro che guarda a destra, erede della tradizione gaullista.
La costituzione transalpina funziona secondo uno schema che privilegia la governabilità al principio di rappresentanza pura: ossia, il Parlamento, in questo caso la Camera dei rappresentanti (equivalente di Montecitorio), può tornare centrale, a condizione però che riesca a esprimere una mozione di dissenso votata a maggioranza assoluta, nel qual caso la contrarietà al provvedimento si trasforma automaticamente in sfiducia e porta alle dimissioni del Governo in carica obbligando il Presidente della Repubblica a nominare un altro Esecutivo e una diversa compagine ministeriale.
Contro la revisione del sistema pensionistico si oppongono sia la destra populista di Marine Le Pen, riferimento d’oltralpe della lega salviniana, sia la sinistra radicale di Melenchon, a cui la nostra gauche grillina guarda con interesse di cifra elettorale conseguita alle ultime consultazioni legislative di Parigi, nelle quali il rassemblement di Macron ha conseguito una maggioranza di misura ma tale comunque da consentirgli di formare un ministero con gli eredi della migliore tradizione repubblicana di centrodestra e del migliore riformismo socialista. Ciò che in Italia sogna di poter fare il terzo polo di Calenda e di Renzi, per inciso.
La riscrittura dell’ordinamento delle pensioni non è un punto nuovo all’ordine del giorno dell’agenda politica dei macroniani: il Presidente in carica, al proprio secondo mandato elettivo consecutivo, avrebbe voluto adottarla già nel corso del primo incarico quinquennale, ma le condizioni politiche per poter agire in tal senso si sono manifestate soltanto in epoca più recente, e comunque l’intervento sugli assegni di pensionandi e pensionati futuri era parte integrante del programma elettorale presidenziale del fondatore di En Marche.
La Francia si caratterizza per un sistema di calcolo degli assegni di quiescenza dal lavoro non molto diverso da quello italiano previgente alla riforma Dini introdotta in Italia nel turbolento biennio 1994-95 che segnò l’avvento a Roma della cosiddetta Seconda Repubblica politica: non è un caso che proprio su di essa si registrò la crisi del primo governo Berlusconi, cui subentrò un esecutivo tecnico politico guidato dall’ex direttore generale della Banca d’Italia e ministro del tesoro.
La legge Dini, pur imponendo una serie di rinunce ai diritti dei pensionandi, permise fino al 2012, anno di entrata in vigore della riforma di Elsa Fornero, di salvaguardare il sistema retributivo e a ripartizione, adesso sostituito da un altro in prevalenza contributivo e a capitalizzazione.
La tutela del principio di ripartizione è proprio l’obiettivo che si pone la contrastata e contestata riforma Macron: portare gradatamente, da qui al 2030, l’età pensionistica media da 62 a 64 anni (la legge Dini prevedeva a regime il collocamento a riposo a 65 anni), e mettere ordine tra i 42 regimi previdenziali speciali che permettono trattamenti privilegiati sul piano economico e anagrafico.
Di contro, il presidente Macron propone un rafforzamento del patto sociale con i Francesi portando alla soglia di milleduecento euro al mese l’assegno minimo. Per inciso, in Italia si sta discutendo su come trovare le risorse per portare le pensioni minime a mille euro prima della conclusione naturale della legislatura Meloni al 2027.
Emmanuel Macron ha ricordato ai propri concittadini che la revisione del sistema è il solo modo per preservare il metodo della ripartizione: in pratica, per fare in modo che gli assegni attuali restino sostenibili grazie alla autosufficienza dei contributi versati, ogni anno, dai lavoratori in attività.
Contro il provvedimento si sono espressi, con dichiarazioni convergenti, sia Le Pen che Melenchon, con la leader della destra radicale pronta a sottoscrivere le mozioni della gauche e con l’auspicio dei due leader populisti che sull’atto di sfiducia possano convergere pure alcuni scontenti non allineati della maggioranza centrista.
Dal canto proprio, Macron e la Premier Borne si dicono convinti che l’applicazione dell’emendamento costituzionale serva a ricondurre nei ranghi la coalizione di governo, la cui entrata in crisi porterebbe allo scioglimento del Parlamento oltre che del Governo, e al conseguente rischio di elezioni anticipate e di perdita di seggi tra macroniani e repubblicani.
Il dibattito in corso Oltralpe è la riedizione di quello che abbiamo vissuto noi in Italia tra il 1994 e il 1995 in corrispondenza con il varo della legge pensionistica che porta il nome dell’ex Premier Lamberto Dini, anche questi Banchiere al pari di Macron e similmente fondatore di una formazione politica di centro il cui apporto, nella seconda metà degli anni novanta e fino al 2008, si è rivelato decisivo per la formazione di maggioranze tanto di centrosinistra quanto di centrodestra nell’epoca del dualismo (o della diarchia) tra Berlusconi e Prodi.
Il direttore editoriale Alessandro Zorgniotti