Rimini, si sa, è da sempre luogo di esperimenti politici certamente audaci e di rottura rispetto a fasi precedenti. Fu negli anni Ottanta che il congresso nazionale dell’allora potentissimo PSI craxiano lanciò, proprio dalla terra romagnola, il binomio tra “meriti e bisogni” come nuova e strutturale soluzione e l’unica in grado di governare successivi cambiamenti economici, tecnologici e sociali sempre più repentini e sempre meno prevedibili dai classici strumenti della programmazione politica e sindacale.
Lo stesso ha cercato di fare oggi Giorgia Meloni, con esiti che saranno i prossimi mesi, da qui alla primavera del 2024 (anno dei concomitanti appuntamenti elettorali europei, regionali, comunali e forse di nuovo provinciali), a dirci se saranno stati favorevoli oppure no all’esperienza governativa della giovane erede della tradizione missina e finiana.
Abbandonando per un istante la filosofia e scendendo nel merito dei numeri: la disfida tra CGIL e Meloni si gioca sui 165 annui di tax expenditures, ossia le spese fiscali, vale a dire il sistema di deduzioni e detrazioni con cui vengono ridotte le basi imponibili e gli ammontari delle imposte lorde in corrispondenza di obiettivi definiti dal legislatore di sviluppo economico, di benessere individuale e familiare e di giustizia sociale.
Che occorra mettere ordine all’interno di una Babilonia di centinaia e migliaia di voci oramai non più gestibili dalle stesse autorità statali, e in non pochi casi di dubbia efficienza ed efficacia, ciò è un dato di fatto. Che questo, tuttavia, minacci di tradursi in un travaso di risorse dai redditi medi e medio bassi, in forma di aumenti diretti e indiretti del carico fiscale, a beneficio di altre categorie reddituali più in grado, come sostiene Maurizio Landini, di reggere eventuali riduzioni di spesa cospicue a danno di scuola e sanità, rappresenta il principale sospetto dei sindacati nei confronti del disegno di legge di delega tributaria adottato proprio ieri dal Consiglio dei Ministri.
Minacce inesistenti, ha ribattuto Giorgia Meloni dagli storici microfoni che troneggiano sulla sigla del sindacato che fu di Di Vittorio, Lama e Trentin. La delega fiscale – ha rimarcato la Premier – è un provvedimento che guarda ai più fragili, ai più vulnerabili, ai redditi medio bassi; che guarda altresì alle aziende perché sono queste ultime a creare lavoro e ad abolire la povertà, due obiettivi che si raggiungono non tramite decreti ma incoraggiando la crescita economica e le buone prassi di collaborazione tra capitale, investimenti e nuova occupazione aggiuntiva stabile e di qualità.
Ne è una dimostrazione l’imposta Ires sulle società: sono previste due aliquote, una ordinaria al 24 per cento e una agevolata al 15 che – ha ribadito la Presidente del Consiglio – da una parte servirà ad adeguare l’ordinamento tributario italiano sulle società alle sopraggiunte direttive internazionali dell’OCSE sulla global minimum tax, dall’altra avrà una componente fortemente selettiva per cui il 15 per cento troverà applicazione solo nei confronti di quelle imprese munite di seri piani di investimento e di assunzione con creazione di posti di lavoro addizionali a tempo indeterminato.
A proposito del principio di addizione, Giorgia Meloni ha voluto spiegare le ragioni che, dal suo punto di vista, renderebbero controproducente l’adozione di una misura come un certo livello di salario minimo imposto per legge: esso rischierebbe di avere lo stesso effetto finale di interventi come quelli che erano stati varati per decreto per abolire la povertà e invece non sono riusciti a impedire che aumentasse. Secondo Meloni, il salario minimo legale verrebbe utilizzato da grandi concentrazioni di imprese come strumento sostitutivo delle relazioni sindacali per livellare verso il basso, appunto verso la soglia minima imposta dalla legge, le tutele dei lavoratori e le condizioni del lavoro.
La sfida autentica, per la capa del Governo, è quella di uscire dal contrasto fra ampio livello di contrattazione collettiva e ampie sacche di lavoro e di economia sommersa e informale: estendendo la copertura dei contratti nazionali di lavoro a quei settori e a quelle categorie che ne sono prive, secondo il principio del “pari salario a parità di qualifica lavorativa”.
Questo, nel disegno annunciato della Premier – che speriamo metta d’accordo la ministra del Lavoro Marina Calderone e il sottosegretario Durigon – dovrebbe condurre alla fine dei contratti pirata e a incoraggiare le aziende sane a sposare la migliore contrattazione collettiva attraverso gli incentivi che il governo man mano accorderà in forma di riduzione del costo del lavoro nella componente indiretta del cuneo fiscale.
Di più: se a pari lavoro deve corrispondere pari salario, allora deve corrispondere altresì pari tutela. Quindi, palazzo Chigi è determinato, nel corso della premier di Fratelli d’Italia, a dare seguito alla introduzione di ammortizzatori sociali universali che sostengano dipendenti, autonomi e partite Iva nei momenti di maggiore difficoltà.
Un discorso, quello della Premier, molto programmatico e senza dubbio con il merito del coraggio; ma con il bisogno di essere declinato in misure concrete già nelle settimane e nei mesi a venire. Perché, come dimostrano i tagli orizzontali apportati al reddito di cittadinanza, se è vero che la povertà non si abolisce per decreto, la stessa rischia di aumentare a causa di quanto contenuto in determinati decreti.
Il direttore editoriale Alessandro Zorgniotti