Sul primo capitolo, Scholz ha difeso la linea della presidente della Commissione di Bruxelles, la tedesca Ursula von der Leyen, che ha proposto un pacchetto di interventi praticamente a saldo finanziari invariati, dove viene innalzata la soglia del regime degli aiuti di Stato – al di sotto della quale i singoli Governi nazionali potranno deliberare sussidi monetari o fiscali a settori o aziende in crisi senza il preventivo assenso del commissario UE alla concorrenza – e vengono introdotte soluzioni di flessibilità relative ai programmi già vigenti da tempo e varati in occasione di precedenti emergenze, dal recovery plan post covid al più recente RePowerEu fino al piano di coesione.
Rimangono inalterate le distanze per quello che riguarda l’approccio nei confronti di un fondo che stabilisca la mutualizzazione del debito pubblico a livello sovranazionale – non esteso alle passività pregresse bensì applicato soltanto alle nuove – per finanziare strumenti comuni di politica industriale e di accompagnamento alla transizione energetica, ambientale, produttiva e occupazionale, quale risposta unitaria all’Ira, inflaction reduction act, varato oltre Atlantico dall’amministrazione federale statunitense di Joe Biden.
Se in un primo momento, complice il rischio di uno scivolamento della Germania in zona recessione tecnica, pareva che le quotazioni del fondo sovrano fossero in risalita – in ragione della necessità tedesca di garantire il sostentamento della propria manifattura automobilistica insidiata dai rincari delle materie prime – in un successivo momento Berlino ha deciso di fare da sé puntando tutto sul maxi piano da 200 miliardi di euro del governo socialdemocratico in carica dalla fine del 2021.
Sebbene solo in parte la scelta unilaterale di Scholz sia un’insidia per le imprese italiane nei medesimi settori di riferimento, poiché in molti di essi la Germania è committente dell’Italia che quindi beneficia degli ordinativi provenienti dall’economia renana e dai suoi giganti manifatturieri, è indubbio in ogni caso un certo livello di svantaggio competitivo negli ambiti a più basso valore aggiunto e a maggiore intensità di lavoro, laddove l’incidenza dei costi fissi indiretti e improduttivi è di gran lunga maggiore da noi.
E se il piano von der Leyen consentisse all’Italia di ripristinare al 100% industria 4.0?
Il Cancelliere socialdemocratico, purtuttavia, ha inteso rassicurare, per quanto possibile, Giorgia Meloni, evidenziando a quest’ultima le opportunità, a suo avviso, insite nel pacchetto predisposto dai commissari di Bruxelles: a partire dalla possibilità di utilizzare in maniera più aggiornata e duttile le importanti risorse monetarie tuttora presenti nei “salvadanai” del recovery plan e del RePowerEu, per proseguire con passo unitario sulla via della diversificazione energetica e della modernizzazione dell’apparato industriale dell’intero vecchio continente, di cui ogni Stato rappresenta uno o più tasselli di una estesa, complessa catena del valore.
Il rinnovato modello gestionale dei programmi pre esistenti, in effetti – secondo una linea di interpretazione che accomuna il socialista Scholz alla democristiana von der Leyen – potrebbe mettere ciascun Governo nazionale in condizione di istituire o rifinanziare dispositivi di agevolazione o incentivazione tesi a consentire la neutralità economica rispetto all’onere, non piccolo per le aziende, di doversi dotare di tecnologie sul modello dell’industria 4.0 con le quali adeguare interi reparti e linee di produzione e con essi le competenze del personale.
Pertanto, ciò metterebbe una realtà come l’Italia in condizione di ripristinare il famoso incentivo che porta il nome dell’allora ministro dell’industria, e attuale leader del terzo polo, Carlo Calenda, dalla cui applicazione le evidenze statistiche ufficiali hanno fatto rilevare una maggiore capacità di resilienza delle imprese investitrici nei confronti delle crisi internazionali e un più sostenuto tasso di riassorbimento della manodopera un esubero e di creazione di nuove occupazione duratura e meglio retribuita nella media.
Se così, utilizzare il piano von der Leyen per ripristinare al cento per cento industria 4.0 accelererebbe il cammino verso la sovranità tecnologica Italiana, attuando quella transizione digitale e sostenibile verso la riconversione di processi e prodotti che può reggere solo se si realizza a parità di condizioni di bilancio per tutto il tempo della sua necessaria durata.
Se da una parte Giorgia Meloni concorda con Olaf Scholz sulle opportunità di una gestione non più burocratica e farraginosa dei piani UE previgenti, è sul capitolo degli aiuti di Stato che si manifesta la principale preoccupazione del nostro Paese, nelle parole della Premier di destra-centro: in quanto il bilancio pubblico italiano non ha margini tali da poter varare in autonomia una soluzione come quella messa a punto da Berlino, e a quel punto la maggiore sofferenza dei distretti nostrani, coincidenti con segmenti di sub-fornitura di primissima eccellenza, potrebbe mettere in difficoltà i più agevolati committenti tedeschi.
Scenario che si eviterebbe con la definizione di uno schema che prevedesse l’apertura dell’ombrello comunitario sovranazionale della mutualizzazione del debito pubblico con una garanzia a carico della commissione UE o di un organismo tecnico unitario da questa delegato. Magari il tanto famigerato e bistrattato Mes, che accanto alla linea di finanziamento agevolato per la sanità potrebbe istituirne una dedicata alla reindustrializzazione.
La sfida per l’Italia si svolge sul piano degli esempi da tenere: Roma potrebbe dare ottima prova delle proprie intenzioni ratificando prima di tutto il trattato di riforma del fondo salva Stati e richiedere il Mes sanitario, il che consentirebbe a palazzo Chigi e al dicastero del MEF di emettere BTP speciali a un tasso di interesse passivo nettamente più basso di quello in vigore sul mercato dei capitali.
Insomma, Italia e Germania devono ragionare secondo basi di complementarietà tra settori di primo e di secondo livello, esattamente così come Bruxelles e Washington devono evitare guerre di tipo “sussidiario” tra le due sponde atlantiche, poiché ciò finirebbe con l’alimentare un circuito tale da rendere poi necessaria una politica monetaria sempre più restrittiva da parte delle rispettive Banche centrali.
Il direttore editoriale Alessandro Zorgniotti