Di che cosa si tratta in pratica? Stiamo parlando dell’applicazione di un dispositivo specifico del titolo quinto della Costituzione, così come modificata dal referendum popolare confermativo del 2001 che ratificò una serie di profonde modifiche alla parte seconda della legge fondamentale alla base del nostro Stato repubblicano post bellico. Mentre la versione originaria del 1948 prevedeva 15 Regioni a statuto ordinario e 5 a statuto speciale, con le innovazioni introdotte 22 anni fa è stata riconosciuta anche alle prime la possibilità di ottenere forme e condizioni speciali di autonomia sulla base di specifiche intese raggiunte tra il Governo centrale e la Regione interessata e quindi approvate – o meglio, ratificate senza possibilità di modifica – dal Parlamento con legge deliberata a maggioranza assoluta da Camera e Senato.
Il cui unico potere, al limite opposto, sarebbe quello di respingerla in blocco.Dunque, ciò che balza subito in evidenza è che l’intervento del potere legislativo si esplica, in via pressoché esclusiva, nella fase finale di un procedimento che, fino a quel momento, viene portato avanti dal negoziato fra palazzo Chigi e il governatore regionale interessato, in ordine al numero e al merito delle materie che la specifica Regione chiede per sé, nella “rosa” delle famose 23 elencate nell’articolo 117 della Costituzione. Si tratta degli ambiti che sono oggetto della cosiddetta potestà legislativa regionale concorrente – dalla sanità alla scuola, dalle reti energetiche al commercio estero, dai rapporti con l’Unione Europea alle banche di territorio – e che, a intesa approvata, diventano una potestà esclusiva. In pratica, al pari di quanto accade per una Regione a statuto speciale.
L’obiettivo dell’autonomia differenziata è fornire alle amministrazioni locali gli strumenti in cui queste possano migliorare le proprie performances, e capacità di creare sviluppo, reddito e benessere, nei settori maggiormente rispondenti alle loro rispettive vocazioni: così da contribuire in misura maggiore alla crescita territoriale così come a quella nazionale, attraverso i meccanismi imponibili, fiscali e perequativi stabiliti in via preventiva, nello stesso disegno normativo, come stanza di compensazione tra spinte regionalistiche e necessità unitarie inderogabili.In ciò, va dato atto al ddl di aver fissato dei requisiti preventivi rispetto all’avvio di qualunque negoziato, a partire dalla fissazione dei “Lep”, ossia i livelli essenziali di prestazione con cui dovranno essere garantiti in misura uniforme, dal punto di vista finanziario e qualitativo, i diritti civili e sociali delle persone in tutto il Paese, secondo criteri non solo di spesa storica statica – che colpirebbero soprattutto il Sud – ma soprattutto di costi standard dinamici, più aderenti ai fabbisogni di ogni popolazione locale.A stabilire per le singole materie i Lep sarà non il Parlamento ma la presidenza del Consiglio dei Ministri, con specifico decreto che dovrà recepire il lavoro scientifico di gruppi di lavoro e comitati di esperti appositamente insediati, oltre che il parere della conferenza tra Stato e Regioni.Dopo di che, stabilito questo quadro, non semplice, l’amministrazione regionale interessata potrà farsi avanti comunicando a palazzo Chigi la propria intenzione di intraprendere un negoziato sulle materie nelle quali vuole esercitare una maggiore autonomia legislativa e amministrativa. Il trasferimento delle competenze dovrà avvenire senza maggiori costi per le finanze pubbliche statali, e in caso diverso bisognerà in via preventiva fissare le coperture addizionali di cui le aree geografiche coinvolte si dovranno fare carico.
Uno specifico passaggio indica la possibilità di determinare quote di compartecipazione al gettito di imposte e tasse di competenza statale, riferibili alla circoscrizione territoriale dove si deve realizzare il decentramento, al fine di scongiurare il rischio di un aumento della pressione tributaria complessiva tra centro e periferia.Siamo dunque all’avvio di un cammino che non sarà breve, e che – anche nel caso il Parlamento approvasse il ddl Calderoli senza modifiche – non porterebbe con sé alcun atto immediatamente attuativo, trattandosi della legge quadro entro la quale dovranno svolgersi tutti i complessi atti preliminari prima alla fissazione dei Lep e poi all’avvio dei negoziati con le varie Regioni a richiesta di queste ultime.I critici del provvedimento lamentano uno scarso coinvolgimento del Parlamento, e il rischio che il concetto di spesa storica prevalga su quelli dei costi standard, colpendo in particolare il Mezzogiorno e l’Italia insulare che nel primo caso si vedrebbero imposti dei livelli essenziali di prestazioni tutt’altro che uniformi, in quanto a spesa pro capite per abitante, al confronto con le aree forti del Nord. E pure in quest’ultimo caso non mancherebbero dei rischi di sperequazione, per esempio tra Piemonte e Lombardia che, pur essendo confinanti, registrano alcuni divari nelle possibilità di sviluppo industriale e di intervento fiscale e sociale.L’altra potenziale zona d’ombra è la natura stessa di alcune materie che fanno parte dell’articolo 117, basti pensare ai rapporti con l’Unione Europea, alle reti di energia, alla sanità: un conto è poter sviluppare al meglio delle vocazioni locali, per esempio nel campo delle fonti energetiche rinnovabili, così da poter beneficiare di una quota significativa dei relativi introiti economici senza dover più dipendere da trasferimenti statali sempre più incerti e carenti; tutt’altra questione è utilizzare le future competenze esclusive per opporre veti su opere strategiche di interesse unitario nazionale.Su quest’ultimo passaggio, la storia d’Italia insegna che è dal 1970, anno di Istituzione delle Regioni a statuto ordinario, che la eccessiva frammentazione delle competenze e dei pareri ha finito con il rallentare a dismisura la modernizzazione del Paese che fu alla base del miracolo economico degli anni Sessanta, e che successivamente la crescita nazionale è stata determinata in certa misura da meccanismi di crescita dei livelli di debito pubblico. Quello delle Regioni, che si aggiunge al passivo dello Stato, al 30 giugno dello scorso anno si avvicinava ai 40 miliardi di euro, con un servizio di costo degli interessi passivi più alto della media nazionale poiché molte amministrazioni territoriali si sono approvvigionate di risorse finanziarie sui mercati secondari e dei derivati, sottoscrivendo condizioni più onerose.Chi richiederà l’autonomia differenziata, sappia che – a norma di Costituzione – potrà sì emettere nuovo o maggiore debito pubblico che tuttavia lo Stato non garantirà in alcun modo.Quindi, da domani in avanti, occorrerà evitare che l’autonomia, da differenziata, non diventi differenziale; e che il Paese non paghi il prezzo della lotta elettorale legata alle prossime consultazioni regionali dove ciascun partito di governo corre per intestarsi i meriti di questo o quel pezzetto di riforma istituzionale.
Il direttore editoriale Alessandro Zorgniotti