Su famiglie numerose e lavoro povero, legge di bilancio già in corto circuito

Per le famiglie con più di quattro figli a carico, a fronte di un aumento dell’assegno unico universale del 50 per cento, è rimasto tuttavia immutato a 20.000 euro il limite massimo ISEE per la fruizione del bonus Draghi su luce e gas. Con la prospettiva che le maggiorazioni monetarie, riconosciute nel primo caso, anziché a beneficio della prole andranno di fatto a coprire una parte dei rincari tariffari su elettricità e riscaldamento.


Si tratta soltanto di una delle contraddizioni che balzano in evidenza per quanto riguarda il mancato coordinamento interno delle misure economiche e sociali alla base della prima manovra di bilancio del governo di Giorgia Meloni.

L’assegno unico universale, va ricordato, venne introdotto dal Governo Draghi, su impulso dell’allora Ministra delegata Elena Bonetti del terzo polo, con l’obiettivo di accorpare, in un solo univoco strumento di ausilio economico, lo storico assegno per il nucleo familiare e tutto un complesso sistema di sussidi e di detrazioni Irpef in precedenza fruibili dalle famiglie con figli.

Le finalità erano e sono meritorie: superare le inique esclusioni di cui era vittima il lavoro autonomo, in particolare quello più marginale sul piano dei redditi, introdurre una modalità di aiuto – appunto universale – alla genitorialità, almeno in parte sganciata da criteri come l’Isee, e incentivare l’occupazione femminile con un meccanismo non più di decurtazioni ma di maggiorazioni.

Purtroppo, come non raramente accade in Italia, alle buone intenzioni di principio seguono applicazioni di dettaglio non altrettanto funzionali e anzi tecnicamente contrastanti. Ciò è sempre avvenuto e tutt’ora succede per due ordini di ragioni: la prima è a causa del mancato coordinamento normativo in ordine a una stessa categoria di destinatari, per cui ciò che in più deriva dall’introduzione di uno specifico sostegno viene quasi subito azzerato e vanificato su altri versanti, in questo caso il non adeguamento della soglia reddituale utile a rendere erogabile il bonus bollette; la seconda ragione è invece rappresentata dalle lacune, talvolta macroscopiche, contenute proprio all’interno della disciplina istitutiva del sostegno. Quindi dell’assegno unico universale di cui si parla.

Lacune delle quali si stanno accorgendo alcune centinaia di migliaia di famiglie mono-genitoriali e di figli orfani che in questi giorni stanno ricevendo dall’INPS – l’istituto della previdenza sociale a cui la legge affida il compito di erogare con bonifico bancario l’assegno – delle lettere nelle quali viene loro ingiunto di restituire, per un totale di sette mensilità, una particolare maggiorazione che spettava per entrambi i genitori titolari di redditi da lavoro. Questo per la filosofia anzidetta per cui compito dell’assegno unico dovrebbe essere non quello di sussidiare la povertà ma di incentivare una crescente autonomia economica nei percettori.

Le famiglie, composte da un solo genitore vedovo o vedova, destinatarie della missiva dell’ente pensionistico di Stato, sono quelle che avevano in origine richiesto la maggiorazione, confortate dai centri autorizzati di assistenza fiscale (CAAF) e da una prima interpretazione favorevole dell’INPS, secondo cui, e ci mancherebbe, l’aver subito un lutto familiare non può diventare una colpa.

La questione, per onore del vero e della cronaca, era balzata in evidenza prima del varo della legge di bilancio, a governo Meloni già insediato e vigente, quindi vi erano tutte le condizioni affinché in sede di revisione dell’assegno unico, assieme alla parte monetaria si mettesse mano a quella legislativa con una disposizione per la salvaguardia dei genitori vedovi.

Invece il tema, pur riguardando alcune centinaia di migliaia di famiglie, è stato semplicemente ignorato, e adesso un padre o una madre sola dovrà restituire all’istituto previdenziale la somma di 210 euro per ogni figlio.

Una brutta notizia a cui se ne aggiungono altre sul fronte del tanto dibattuto e contestato reddito di cittadinanza, ridotto a sette mensilità in attesa di essere totalmente abolito a decorrere da inizio 2024 e sostituito da un non meglio precisato fondo per l’inclusione sociale e il contrasto alla povertà.

Le limitazioni introdotte al RDC riguardano i cosiddetti percettori occupabili, ossia coloro che possono essere avviati al lavoro o necessitano di corsi di qualificazione. La questione che contraddice le tesi del governo Meloni, secondo cui detto reddito sarebbe un disincentivo a lavorare, è stata portata alla ribalta dalla sociologa Chiara Saraceno, presidente del gruppo di lavoro scientifico per la riforma del RDC: tra coloro che lo percepiscono, ben 170.000 svolgono un’occupazione regolare, mentre altri 500.000 hanno comunque vissuto un’esperienza lavorativa durante la ricezione del sostegno introdotto dal primo Governo Conte.

Secondo la professionalità Saraceno, il punto centrale è un’azione che contrasti il lavoro povero, la cui incidenza in Italia è di quattro punti superiore alla media europea, e che trasformi il RDC in uno strumento di incentivazione all’occupazione e di crescita del reddito per chi torna nel circuito lavorativo attivo.

Anche qui le proposte non mancano, tuttavia occorre fare un fretta a recepire le stesse, poiché tra meno di due mesi molte delle coperture, sebbene parziali, contenute nella manovra di bilancio verranno meno per esaurimento di fondi, e dunque a cambiare devono proprio essere i criteri.

Il direttore editoriale Alessandro Zorgniotti

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