All’ordine del giorno, tuttavia, non esistono soltanto gli aspetti di politica economica difensiva, da gestire appunto con la cautela e la misura occorrenti a prevenire una guerra dei sussidi pubblici tra le due sponde dell’Oceano Atlantico. In quella data, infatti, a finire sotto la lente dei 27 Capi di Stato e di Governo saranno pure gli effetti delle decisioni nel frattempo assunte dalla BCE di Christine Lagarde nel segno di un ulteriore aumento dei tassi e quindi del costo del denaro in un crinale che, dagli originari propositi di disinflazione, potrebbe sconfinare nella zona della deflazione, dal momento che la Germania è entrata statisticamente in territorio negativo per quanto riguarda il tendenziale del proprio PIL, spinto verso il basso da un apparato industriale tanto robusto e articolato quanto energivoro in senso fossile.
Su quest’ultima circostanza sembrerebbe lavorare il Governo di Giorgia Meloni, con l’obiettivo di rendere meno univoco l’asse “frugale” del Nord Europa, dominato dal protagonismo austero dei Paesi Bassi, e di portare il Cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz a convenire con Roma sul via libera alla istituzione di un fondo sovrano competente a emettere titoli comuni del debito pubblico con la garanzia non più dei singoli Paesi bensì della Commissione di Bruxelles o di altro organismo unitario da questa delegato, magari un Mes riveduto e corretto (diverso cioè da quello previsto dall’attuale trattato di riforma che l’Italia seguita a non ratificare).
Sulla via di una tale possibile “grossa coalizione” tra conservatori italiani e socialisti renani – le cui prove tecniche sono in corso nella trattativa per l’acquisizione di Ita ex Alitalia da parte di Lufthansa – si frappone però l’Olanda del Primo Ministro Mark Rutte. Da sempre contrari alla mutualizzazione delle fonti di finanziamento delle politiche industriali comunitarie, i Paesi Bassi sono tutt’al più inclini a qualche moderata concessione per ampliare a Sud i margini del regime degli aiuti statali, a fronte di più stringenti condizionalità legate al cammino delle riforme di “efficientismo” imposte alle Nazioni beneficiate dalle deroghe, pur limitate e temporanee, sui bilanci.
Alla fine, a prendere il sopravvento dovrebbe essere il classico compromesso tipico di una organizzazione intergovernativa quale resta l’Unione Europea, al netto di qualsiasi buon proposito di evoluzione dell’architettura politico costituzionale in direzione federalista: vale a dire, un allentamento eccezionale sugli aiuti di Stato e la contestuale definizione di uno strumento in grado di finanziarsi sul mercato dei capitali per incentivare una giusta transizione energetica e tecnologica dell’industria del vecchio Continente, senza sostituirsi ai fondi preesistenti e tutt’ora dotati, secondo Rutte, di una capienza più che sufficiente per consentire ai Paesi in maggiore difficoltà fiscale, come l’Italia, di sostenere il tessuto produttivo locale.
Del resto, è l’opinione maggioritaria fra quanti stanno preparando il prossimo imminente Consiglio UE, una rincorsa a chi introduce il sussidio più alto, fra Bruxelles e Washington, rischierebbe alla fine dei conti di presentare un Occidente meno autorevole sia nei piani di contrasto al disegno egemonico di Putin in Ucraina, sia nei progetti di affrancamento dal monopolio cinese di fatto sui chip e sulle batterie elettriche.
Mentre infatti di discute di ipotetici nuovi fondi mutualistici nei palazzi della capitale belga, non vi è più traccia del Chips act che avrebbe dovuto essere approvato da tempo per rendere percorribile il secondo scenario e per incentivare non una competizione reciproca bensì una collaborazione e un intreccio tra le manifatture hi-tech delle due sponde atlantiche. Non è un caso che le tensioni striscianti in atto nell’orbita occidentale, unite a cali di fatturato dei soggetti investitori, stiano rallentando e rinviando alla seconda parte dell’anno i propositi di insediamento del colosso statunitense dei semiconduttori Intel nel vecchio Continente e in particolare in Italia, mentre sicura per il momento di portare a casa lo stabilimento dei microprocessori con i relativi occupati è la Germania.
L’Italia semmai ha una chance che non è replicabile nel resto del Continente: una straordinaria ricchezza finanziaria pari a 4 volte il prodotto interno lordo e che, come certificato dal governatore di Via Nazionale Ignazio Visco, si conferma in continua crescita sebbene in misura più lieve.
Come dimostra il recente caso di successo del rapido collocamento dei titoli obbligazionari di Eni per un totale di dieci miliardi, il Governo Meloni e le società statali partecipate potrebbero cogliere la storica occasione del basso livello dello spread per promuovere emissioni e tagli speciali di bond – agevolati sul versante della tassazione di rendimenti e plusvalenze – in maniera da incentivare centinaia di migliaia di piccoli e medi risparmiatori a convogliare una quota dei propri stock nella direzione di progetti tracciabili in settori strategici e distintivi del made in Italy, dall’energia alle telecomunicazioni, dalla mobilità al turismo: incentivando in tal modo ulteriori flussi di investitori dall’esterno molto più di quanto non possano fare fondi sussidiari o aiuti di Stato a maglie larghe.