Allarme TLC: in Europa telefonia e 5G troppo cuciti alla Via della Seta

Non solo gas russo: le dipendenze pericolose passano sì da Mosca, ma pure da Pechino. Uno studio specialistico di settore ha messo in evidenza che Paesi come Germania e Italia, ma non solo questi in ambito UE, hanno allestito il servizio 5G acquistando da Pechino la maggior parte delle tecnologie occorrenti, fornite nello specifico da Huawei. La società cinese specializzata in dispositivi per l’elettronica di consumo, spiega il dossier, avrebbe colto tutte le opportunità messe a disposizione dalle lacune contenute in una direttiva della Commissione di Bruxelles che demandava ai singoli Stati i tempi e le modalità di limitazione all’utilizzo di tecnologie importate da Paesi terzi e da soggetti classificabili come fornitori ad alto rischio per la sicurezza nazionale.

Una norma quindi più di indirizzo che non di efficacia diretta, condizionata ancora una volta dagli interessi di Nazioni come la Germania e l’Olanda, che nella realizzazione delle rispettive infrastrutture di telecomunicazioni hanno espresso la più alta incidenza nella dipendenza dalle forniture prodotte dal Dragone asiatico.

A redigere il report è stata la società di ricerche di mercato facente capo a John Strand, il quale senza perifrasi, nel commentare i risultati del dossier, ha ribadito che dipendere dalle tecnologie cinesi, nel campo delle comunicazioni telefoniche mobili e digitali, sarebbe addirittura peggio che dover sottostare al gas russo in ambito energetico. Il motivo di ciò è semplice: tali dipendenze, che rischiano di diventare strutturali (se già nel frattempo non lo sono diventate), non consentono di procedere al disaccoppiamento tra le economie dell’Occidente e quelle di Paesi non allineati agli stessi standards democratici e di tutela dell’orbita individuale.

Lo studio ha dunque redatto una classifica delle Nazioni dell’Unione che hanno espresso un livello percentuale superiore al 50 per cento del totale negli approvvigionamenti dalla Cina per quanto attiene alla infrastruttura del 5G: si parte da Cipro, che si è procurata dal Paese della Grande muraglia la totalità dei dispositivi necessari, per proseguire con Romania (tasso di dipendenza tecnologica al 76%), Paesi Bassi (72%), Bulgaria (65%), Austria (61%), Germania (59%), Italia (51%).

Nel caso del nostro Paese, un ruolo di contenimento – rispetto al predominio di Huawei – è stato svolto, e di questo va dato atto, dal precedente governo di Mario Draghi, coadiuvato dal lavoro del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), in allora presieduto dall’attuale Ministro dell’industria Adolfo Urso: palazzo Chigi, sotto la guida dell’ex Banchiere centrale di via Nazionale e di Francoforte, in almeno un paio di occasioni ha utilizzato le possibilità offerte dalla normativa statale sulla “Golden Power” per opporre il proprio veto alla cessione di due aziende italiane, attive nei campi dei circuiti integrati e della robotica, a gruppi di emanazione del governo comunista di Pechino.

Lo studio della società di consulenza, con sede in terra danese a Copenhagen, ha per converso elencato quei Paesi del vecchio Continente che, al contrario, non hanno mai effettuato alcun acquisto di tecnologia 5G dal colosso del Dragone: essi sono Danimarca, Repubblica Ceca, Svezia, Norvegia, Lituania, Estonia, Lettonia, Malta, Lussemburgo, Slovacchia e Isole Faroe.

I dati stilati dal report forniscono un’utile guida al fine di calcolare le esatte probabilità che l’Unione Europea possa in termini reali e pratici conseguire la tanto invocata e promessa sovranità tecnologica attraverso un Chips act che peraltro deve ancora essere approvato e mediante un piano di investimenti che Ursula von der Leyen ha quantificato in 300 miliardi di euro da realizzare in Paesi extra UE, a partire dal continente africano, per smarcare quei mercati dall’orbita di influenza della Via della Seta.

Da capire infine come si evolverà il dibattito in atto in Italia sul disegno di una rete nazionale delle telecomunicazioni che, in coordinamento con i dettami della Commissione von der Leyen, non potrà più essere unica ma potrà contemplare una partecipazione di controllo pubblico a tutela della sicurezza nazionale in un contesto di crescente apertura a investitori non rischiosi.

Il ministro Adolfo Urso, in sincronia con il collega alle finanze Giancarlo Giorgetti, sta studiando la copertura finanziaria per un provvedimento destinato a ridurre l’aliquota Iva al 10 per cento sui prodotti e servizi di TLC, con l’obiettivo di sostenere il pieno rilancio industriale e commerciale del gruppo Tim, impegnato nella partita dell’infrastruttura comunicativa made in Italy assieme a partner prioritari come Cassa depositi e prestiti.

Va ricordato che nel passato mese di novembre, nel corso della plenaria del G20 riunito a Bali, tra Giorgia Meloni e il presidente autocrate della Cina, Xi Jinping, si svolse un colloquio bilaterale di circa un’ora dal quale, al di là di messaggi di reciproca cortesia e di generici auspici ad accrescere le esportazioni italiane in Asia, nulla di specifico venne tuttavia detto, o quanto meno ufficializzato, in merito alle prospettive di prosecuzione dei memorandum di collaborazione firmati nel 2019 dal Governo Conte 1, sorretto dalla allora coalizione gialloverde tra grillini di di Maio e Lega di Salvini, e che avevano contornato la tanto contestata e non del tutto trasparente Via della Seta.

La cui messa in discussione rappresenterà per ciò stesso uno dei principali banchi di prova del nuovo corso di palazzo Chigi, dopo che nel 2021 fu proprio l’Italia a impedire, in un ordine del giorno del G7 di quell’anno, che fosse esternato un diretto riferimento a Pechino sul tema dei lavori forzati e della necessità di contrastare tale piaga economica e umanitaria.

Il direttore editoriale Alessandro Zorgniotti

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