Lasciando un attimo da parte Roma e tornando a Francoforte, appare evidente che l’assenza di dichiarazioni e di comportamenti univoci, in capo alla attuale vertice della Eurotower, ha portato la politica monetaria a non essere più all’altezza della duplice emergenza pandemica e inflazionistica. Dichiarazioni avventate o eccedenti il proprio mandato presidenziale, continui cambi di valutazione sulla natura più o meno transitoria dell’inflazione, rigore monetarista pur in presenza di una crescita del livello generale dei prezzi dovuto a cause totalmente diverse da quelle statunitensi, e l’elenco potrebbe continuare.
Anche Mario Draghi era solito utilizzare la strategia degli annunci per orientare i mercati sulla base di aspettative, ma le sue erano dichiarazioni di poche sillabe con interpretazione autentica, a partire da quel “Qualunque cosa serva” che egli pronunciò nell’estate del 2012 con riferimento ai piani di difesa della moneta unica e dell’integrità finanziaria della zona Euro, preludio a ciò che sarebbe stato il quantitative easing per incentivare una sana e moderata inflazione da domanda interna.
Il principale errore che difficilmente sarà perdonato a Christine Lagarde è quello di non avere saputo mettere a disposizione, delle banche commerciali e delle istituzioni governative comunitarie e nazionali, una ordinata e non onerosa uscita graduale dall’ombrello protettivo del QE di fronte al cambiamento dello scenario macroeconomico seguito allo scoppio della guerra russa in Ucraina.
Tristemente memorabile il momento in cui, a metà dello scorso anno, la Banchiera di origini francesi annunciò che i tassi di riferimento sarebbero stati aumentati, senza precisare entità né tempistiche, provocando il rialzo dello spread tra BTP e Bund tedeschi e rendendo subito dopo necessario il varo di uno scudo proprio per arginare il differenziale dei rendimenti sui titoli sovrani italiani e tedeschi in precedenza causato.
Vicende che ci portano ai giorni nostri, con la BCE che ribadisce la propria linea monetarista pura rendendo necessaria, così, l’accelerazione del cammino di abbandono di quel che rimane dei programmi di quantitative easing, ossia di acquisto massivo di titoli di Stato. Un passaggio obbligato al fine di evitare il peggioramento di rilevanti perdite economiche nei bilanci della Eurotower e delle singole banche centrali nazionali associate.
Il perché è spiegabile: ogni aumento del costo del denaro porta con sé un deprezzamento del valore delle obbligazioni che dovrebbero essere acquistate con il QE e, allo stesso tempo, impone di adattare al rialzo il tasso di interesse che la BCE deve versare sulle riserve aperte a favore degli Stati che hanno collocato i propri titoli profittando del piano Draghi. Ciò, mentre le obbligazioni sovrane già in precedenza in portafoglio continuano a fruttare a Francoforte ricavi da interesse su tassi di molte inferiori agli attuali.
Ecco, allora, che gli utili si trasformano in perdite nette, per la Banca centrale europea e per i singoli Istituti centrali nazionali, che minacciano di ripercuotersi sui bilanci dei governi. Con un duplice onere, aggiuntivo ai maggiori interessi passivi ai quali confirmare i rendimenti delle nuove emissioni di BTP.
In Inghilterra, il governo conservatore di Liz Truss è entrato in crisi, dopo appena un mese, a seguito della necessità per Downing street di ripianare lo sbilancio della Banca del Regno Unito custode della sterlina di Sua Maestà.
A conferma di come il quantitative easing, in assenza di una politica monetaria non in grado di svilupparsi in una razionale politica economica, possa portare a esiti finali esattamente corrispondenti a quegli scenari contro i quali era stato introdotto.
Un epilogo che forse si sarebbe potuto evitare.
Il direttore editoriale Alessandro Zorgniotti