Questo, in base a quanto argomentato da più di un analista economico, vorrebbe dire che il fiscal drag è andato ad alimentare l’avanzo primario dello Stato – cioè la differenza tra entrate e uscite al netto della spesa per interessi passivi sul debito sovrano – e per la maggior parte non è tornato ai cittadini sotto forma di riduzione mirata del carico fiscale laddove lo stesso era in precedenza aumentato per effetto dei rialzi sui listini e delle indicizzazioni sui redditi fissi.
Questa tendenza a rafforzare l’avanzo primario, se guardiamo ai contenuti di merito del decreto Meloni Giorgetti, decreto che ha portato la categoria dei benzinai a indire uno sciopero oramai quasi certo per il 25 e 26 gennaio e che starebbe scontentando un elettore italiano ogni due, sembra proseguire senza soluzione di continuità dal precedente governo Draghi all’esecutivo attuale.
Con l’aggravante che adesso si è mangiato pure lo sconto che paradossalmente, per i prezzi praticati all’automobilista, potrebbe essere più consistente di quello dell’ex presidente della BCE se solo il Governo mantenesse le accise ma rinunciasse all’IVA sulle stesse per un costo di appena 7 miliardi contro i 12 della misura di prima.
Uno studio realizzato dalla società di telemarketing Facile.it, specializzata nella comparazione in tempo reale di tariffe e bollette, ha stabilito che, per una percorrenza automobilistica annua di 10.000 chilometri, tipicamente sostenuta da un lavoratore pendolare entro il perimetro della regione di residenza, il conto versato per la benzina è di poco superiore ai mille euro: il quintuplo del valore massimale della scheda carburante che il decreto Meloni Giorgetti ha previsto, con validità sino a fine anno corrente, come importo non facente parte del reddito imponibile del dipendente interessato.
La domanda sorge naturale: perché non si è deliberato di portare da 3000 a 4000 la soglia dei fringe benefit – il cosiddetto salario accessorio costituito da un paniere di beni e servizi reali erogati in forma non monetaria dal datore di lavoro – introdotta con la legge di stabilità approvata poco prima della scadenza del 2022 e appena in tempo utile per evitare all’Italia l’onta dell’esercizio provvisorio del bilancio?
Sempre facendo riferimento alla ricerca condotta da Facile.it, il mancato rinnovo dello sconto sulle accise ha portato un pieno di benzina, in Italia, ha essere il quarto più caro in Europa, mentre le contestate tasse fisse per ogni litro di carburante – e sulle quali si calcola pure l’IVA ordinaria al 22 – presentano, in relazione al prezzo finale praticato all’automobilista, la più alta incidenza di tutto il Continente: addirittura il 58 per cento, che durante la reggenza Draghi di palazzo Chigi era sceso fino al 46, addirittura al 39 per quanto riguarda il diesel.
In compenso, viene ripristinato un altro bonus risalente all’esecutivo dell’ex presidente della BCE: quello relativo agli abbonamenti al trasporto pubblico locale effettuato con bus, tram, treni e metro, e corrispondente a 60 euro una tantum per una soglia di reddito annuo lordo che però, in ossequio a un pauperismo che sembra avere contagiato pure la destra, viene abbassata in misura secca da 35.000 a 20.000 euro. Quindi, così come per il bonus bollette, pure quello sugli abbonamenti al Tpl rischia di trasformarsi in un malus per i sempre più bistrattati ceti intermedi.
Certamente, se queste sono le premesse, l’inverno in corso, seppur fin qui mite sul piano climatico, è assai gelido su quello delle politiche fiscali per i redditi: non è difficile immaginare un record di insolvenze e di morosità per quanto riguarda le fatture di luce e gas, a causa della decisione del Consiglio dei Ministri di modulare il bonus energia nuovamente sul parametro dell’ISEE, che agisce orizzontalmente, rispetto a quello della fissazione di una specifica soglia di consumi mensili di chilowattora, con la fissazione di un tetto alle bollette fino a 800 kWh al mese. L’esperienza del governo di Edi Rama, nella vicina Albania, dimostra che, a parità di risorse stanziate, un tale meccanismo incentiva una cultura diffusa al risparmio e al minor consumo di energia, e arriva a beneficiare fino all’ottanta o novanta per cento delle utenze.
Nel corso dei prossimi mesi, e prima del prossimo autunno, Meloni e Giorgetti dovranno rinnovare i vertici di almeno tre importanti istituzioni: Enel, Eni e Banca d’Italia. Il mandato del governatore di via Nazionale, Ignazio Visco, scadrà infatti a ottobre 2023, in base a una legge del governo Berlusconi Tremonti del 2005 che ha abolito il carattere vitalizio della poltrona più alta di Bankitalia.
Il nostro auspicio è che tali nomine tolgano, una volta per tutte, ogni pretesto addotto dall’esecutivo di destra centro a non esercitare il proprio ruolo di persuasione morale nei confronti di enti come Enel ed Eni, divenuti nel frattempo delle compagnie multinazionali, affinché riducano i prezzi al dettaglio, passaggio questo essenziale a incentivare le altre società concorrenti, e il sistema locale delle Partecipate del settore, a fare altrettanto.
Il solo Eni, in tal senso, potrebbe fin da adesso destinare alla causa di un carburante meno oneroso 20 miliardi di euro, senza necessità di alcuni scostamento peggiorativo nei saldi del bilancio statale.
Mentre per quanto riguarda la Banca d’Italia, il futuro governatore potrebbe assumere, nel rapporto istituzionale con la BCE di Francoforte di Christine Lagarde, un ruolo incisivo per contrastare gli alfieri della austerità sul piano dei tassi di riferimento e della messa a punto di quel pacchetto di strumenti finanziari, alternativi al regime dei soli aiuti di Stato e al Mes, auspicato dal duo Meloni Giorgetti per finanziare, sotto il cappello delle garanzie UE e senza dover accrescere deficit e debito nazionali, politiche di reindustrializzazione di area vasta competitive con Asia e USA.