Insomma, la leader di Fratelli d’Italia ha cercato, al momento riuscendoci, di coniugare fermezza dichiarativa di principio e flessibilità metodologica. Ha riaffermato, in una divisione dei ruoli istituzionali più teorica che pratica, che il recepimento del meccanismo europeo di stabilità è una competenza approvativa dell’organo legislativo, dicendo una ovvietà sul piano della ratifica del trattato di riforma del Mes; ma si è affrettata subito dopo a puntualizzare che la responsabilità politica del suo Governo sarà quella di non azionare mai la leva dell’utilizzo di uno strumento nato in origine per essere l’equivalente europeo del fondo monetario internazionale.
In sintesi: l’Italia apre le porte di casa a un creditore privilegiato senza che a ciò corrisponda, successivamente, la richiesta di un prestito, piccolo o grande che sia, allo stesso.
In tal modo, non si viene a creare un caso a Bruxelles che – dopo la inevitabile ratifica di parte tedesca – vedrebbe l’Italia totalmente isolata; ma in parallelo non si viene a creare il precedente, politicamente paradossale, di un ricorso al Mes da parte della coalizione politica a esso più ostile.
“Sono pronta a firmare con il sangue che non faremo mai ricorso a una simile linea di finanziamento – estremizza Meloni – In primo luogo, perché è una modalità troppo stringente dal punto di vista condizionale, inoltre perché la caratteristica del Mes di essere un creditore privilegiato creerebbe problemi ai nostri titoli di Stato dal momento che dovremmo rimborsare i prestiti prima al Salva Stati che agli altri sottoscrittori”. Fine del discorso, o così è se vi pare.
Le dichiarazioni di Giorgia Meloni nel salotto di Porta a porta sembrano mettere il timbro della definitiva archiviazione a una specifica proposta che era venuta, ancora nei giorni scorsi e all’inizio della settimana, dal terzo polo di Carlo Calenda, il quale si era impegnato a convincere la premier sulla importanza sia di ratificare il meccanismo europeo di stabilità, circostanza che probabilmente avverrà ma solo su responsabilità politica del Parlamento che non investe il Governo di destra centro, sia di richiedere una linea di finanziamento di almeno dieci miliardi a valere sul capitolo sanitario, che fin dal 2020 mette a disposizione dell’Italia un margine massimo di 35 miliardi a tassi resi ancora più agevolati dal confronto con le attuali contingenze rialziste della BCE.
Si tratta del cosiddetto Mes sanità, che era stato introdotto dalla commissione von der Leyen per aiutare il nostro Paese a fronteggiare l’emergenza pandemica con lo stanziamento di risorse a condizioni di favore e con il solo vincolo a destinarle al rafforzamento dei servizi di salute territoriale e di riduzione delle liste di attesa. “Una necessità oggettiva – ha ricordato il leader di Azione – perché nell’ultimo anno, per evitare di attendere i tempi lunghi del sistema pubblico, i nostri concittadini si sono dovuti sobbarcare, non di rado indebitandosi, una spesa complessiva di 50 miliardi di euro presso i centri privati”.
Il governo Conte due e il successivo esecutivo Draghi non hanno mai voluto utilizzare una simile opzione, il primo per motivi ideologici e il secondo perché nella propria maggioranza di unità nazionale annoverava pur sempre il movimento grillino.
Proprio sul tema del diritto alla salute, e delle risorse messe a bilancio con la legge di stabilità in corsa per scongiurare l’onta dell’esercizio provvisorio, si sta svolgendo un confronto serrato nelle commissioni parlamentari tra maggioranza e opposizioni: il Governo, a fatica, è riuscito a incrementare il fondo per il SSN di appena due miliardi, in pratica soldi che serviranno a pagare la differenza in aumento delle utenze energetiche di ASL e ospedali, ma non potranno incidere sulla migliore accessibilità tempistica dei cittadini alle prestazioni diagnostiche e interventistiche di cui necessitano.
Né il Consiglio dei Ministri a guida Meloni ha affrontato il tema della restituzione del fiscal drag, ossia il drenaggio fiscale rappresentato dal maggior gettito tributario dovuto all’aumento di prezzi e di talune tipologie di redditi e di ricavi alla crescita dell’inflazione: l’eredità di Mario Draghi è consistita infatti in un aumento delle entrate erariali, da gennaio a ottobre, pari a 56 miliardi di euro, ma della restituzione di questi ai contribuenti, in forma di bonus Irpef o di perequazioni, ovvero di abbattimento di liste di attesa, non vi è traccia nella cascata di emendamenti vagliati dalle commissioni di Camera e Senato.