Il Presidente Sergio Mattarella invia un messaggio rigoroso: “Nessuna pausa nell’attuazione del recovery plan”. Votata in Senato una fiducia solo relativa che di fatto ha aperto la via alle dimissioni irrevocabili e al voto anticipato in un autunno denso di scadenze e di emergenze. Alla fine, non è stata una fiducia né numerica, né politica: primo, perché votata a maggioranza relativa sul totale dei senatori; secondo, perché il voto sulla risoluzione a firma Pierferdinando Casini, consegna l’immagine di un “campo stretto”, osteggiato dal centrodestra e dall’ala più movimentista (e movimentata) del centrosinistra rappresentata da ciò che rimane dei cinque stelle.
Uno scenario mortificante sul piano della politica, inquietante su quello delle ricadute nei confronti dei mercati internazionali. Draghi, nato come fideiussore dell’Italia per prestare all’Europa la garanzia che il piano di riforme, necessario all’ottenimento dei fondi del Pnrr, sarebbe stato rispettato nei tempi e nei ritmi di attuazione, ritira quindi la propria firma lasciando in definitiva alla politica politicante l’ingrato compito di andare agli sportelli della Commissione UE di Bruxelles per richiedere le prossime rate dei fondi europei a condizionalità del recovery plan.
Compito non semplice, dal momento che si chiude il teatro della politica, ma si apre il circo della campagna elettorale per la scelta del prossimo Parlamento in un autunno segnato dall’unica certezza di dover fare fronte a una ridda di incertezze e incognite di tipo industriale, energetico, sanitario, sullo sfondo di una inflazione speculativa e di una guerra russa in Ucraina che non accennano a nessuna tregua.
Paradossalmente, il colpo di grazia alla permanenza di Draghi a palazzo Chigi gli è arrivato, in maniera del tutto involontaria, dal suo ministro più devoto e fedele, Luigi Di Maio, che al fine di mettere il Premier al riparo dal movimentismo rivendicazionistico di Conte aveva promosso la costituzione di gruppi autonomi di ex grillini responsabili sotto il nome di Insieme per il futuro, un mese fa.

Una manovra che ha fatto impazzire il sismografo della politica parlamentare, facendo della Lega di Salvini la forza principale della coalizione di governo e inducendo la pattuglia grillina dell’ex avvocato del Popolo a rafforzare i propri distinguo identitari su reddito di cittadinanza e super eco bonus edilizio: per il Premier uscente due provvedimenti fallimentari e da riscrivere radicalmente, per il suo predecessore a palazzo Chigi viceversa due punti sui quali esercitare il massimo della difesa intransigente e ideologica.
A nulla sono valsi gli appelli di Draghi a rispettare la volontà popolare, espressa non attraverso il voto ma tramite petizioni e manifestazioni di sostegno di sindaci e associazioni di categoria nei confronti del suo governo: il tentativo di porre un ultimatum al Parlamento, magari facendo leva sulla paura di molti degli attuali senatori e deputati di non essere rieletti e di consegnare il Paese alla Meloni, non è stato efficace e anzi ha accelerato l’implosione della maggioranza, facendo ritrovare al centrodestra l’unità (se tattica o strategica lo si vedrà presto) e accentuando nel centrosinistra le divisioni tra governisti e movimentisti.
Intanto, da più parti ci si interroga sulla interpretazione, estensiva o restrittiva, da attribuire alla formula costituzionale degli affari correnti, per il disbrigo dei quali il Governo uscente e dimissionario rimane in carica fino all’insediamento del successivo: per esempio, l’avanzamento attuativo del Pnrr è considerato da molti autorevoli costituzionalisti come un insieme di atti urgenti e non differibili, in quanto derivanti da una preventiva intesa vincolante che l’Italia ha sottoscritto in sede europea in base ai trattati UE; allo stesso modo, nel caso l’inflazione aggravasse la crisi economica nazionale creando rischi di ordine sociale, ciò legittimerebbe un Draghi dimissionario a varare uno o più decreti per arginare la spirale dei prezzi.
In un simile duttile contesto interpretativo, il solo limite e paletto sembra essere quello rappresentato dalla necessità che qualsiasi provvedimento adottato in regime di necessità e urgenza non ponga ipoteche sulla capacità d’azione e sui margini di manovra politico amministrativa del Governo che verrà dopo. In teoria chiaro, in pratica un rompicapo: non solo per chi deve e dovrà governare, ma anche e soprattutto per i cittadini e gli imprenditori Italiani residenti e operanti sia in patria che all’estero e i cui diritti, anche quando sono pacificamente acquisiti, vengono disquisiti soltanto in campagna elettorale.
Draghi ha chiuso il teatro; adesso tocca alla saggezza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, unico garante internazionale rimasto, impedire che si apra il circo della politica.
L’editoriale di AZ