Mentre deve essere verificata sul campo l’efficacia dello scudo anti-spread della BCE di Christine Lagarde, di certo fin qui vi è che il voto di palazzo Madama di mercoledì sera ha mandato in frantumi lo scudo di Draghi: già di prima mattina, ieri, alla riapertura dei mercati, il differenziale dei rendimenti tra Bund tedeschi e BTP italiani rialzava la testa attestandosi sui 230 punti base, e secondo gli analisti lo stesso potrebbe aggravarsi ancora portando i nostri buoni del Tesoro pluriennali a scenari da tragedia greca, scritta non da Omero ma da quanti tendono a una loro monetizzazione massiva oppure a lucrare cedole più vantaggiose in sede di rinnovo delle emissioni di titoli.
A traballare, secondo gli ultimi aggiornamenti, sarebbero 200 miliardi, a fronte di un bilancio statale che ogni anno presenta spese obbligatorie, cioè non comprimibili, per ottocento miliardi di euro. Di fatto, la politica romana, il cui baricentro si sposta adesso sulla campagna elettorale e sulle promesse d’autunno (per la gran parte non sostenibili), ha demandato ogni scelta di merito a Francoforte e alla BCE, la cui Presidente Christine Lagarde è stretta nel circuito – che potrebbe diventare corto circuito – tra l’esigenza di contrastare l’inflazione importata, attraverso un rialzo dei tassi di riferimento e del costo del denaro, e l’imperativo di garantire la stabilità e la solvibilità dei debiti sovrani degli Stati soprattutto dell’area meridionale e mediterranea della UE.
Un crinale tagliente: da un lato, la fine dei tassi zero e il loro aumento di 50 punti base come infine avvenuto, ha come effetto immediato un rimbalzo dell’Euro nel rapporto di cambio con il dollaro statunitense, avvantaggiando in misura maggiore la domanda di obbligazioni statali dei governi nordici; d’altra parte, la funzione dello scudo anti-spread risponde alla missione di offrire un meccanismo di tipo solidale per favorire una almeno parziale convergenza fra le diverse economie nazionali, agendo come una camera di compensazione tra il rischio di rendimenti troppo alti o troppo bassi.
L’indebolimento di Draghi potrebbe indurre la presidenza della BCE a depotenziare all’origine la portata dello scudo, e a basare principalmente – come sembra essere successo ieri – sulla leva di rialzi più consistenti dei tassi la strategia di normalizzazione dei tassi di inflazione, a propria volta diversi da un Paese all’altro della Eurozona sebbene accomunati da andamenti rialzisti in alcuni casi già a due cifre conclamate.
L’eredità del Draghi presidente della BCE, nei confronti dell’Italia, è stata di tutto rispetto, in forza altresì dei vincoli operativi posti alla Lagarde subentrata a lui nel 2020: dal 2014 al 2021, a favore dei governi Renzi, Gentiloni, Conte 1 e 2, la Banca centrale europea ha garantito liquidità diretta e indiretta per 1200 miliardi di euro (in termini di sottoscrizioni, acquisti sul secondario e mantenimento di BTP in portafoglio), rendendo meno oneroso il capitolo della spesa per interessi passivi.
Probabilmente, sarebbe stato uno dei periodi più propizi per avviare una revisione della struttura del bilancio pubblico dell’Italia con uno sguardo attento a vincere non solo le elezioni “del giorno dopo”: perché la storia di tale settennato insegna che le elezioni prima si possono anche vincere, espandendo la spesa corrente a ritmi di bonus e sussidi, ma poi si perdono perché i meccanismi sovranazionali di stabilità, non aboliti ma solamente sospesi, impongono di comprimere quelle stesse voci di erogazione monetaria (reddito di cittadinanza e super bonus/malus docet).