La guerra entra nella nostra economia: 100.000 imprese rischiano la chiusura

La guerra non dichiarata ufficialmente, in casa nostra, è quella che minaccia di essere ratificata dalle decisioni delle sezioni commerciali dei tribunali, e dagli uffici di gestione dei registri delle imprese presso le Camere di commercio delle varie province, con una inquietante ma prevedibile concentrazione nel Sud: in Italia 100.000 imprese rischiano di dover porre fine alla propria attività, privando un lavoratore su tre della sua occupazione.Si tratta di proiezioni divulgate dal Cerved, la società che si occupa di svolgere studi e ricerche economiche e congiunturali sulle società di capitale. L’ondata dei fallimenti, parola incombente benché abiurata dal nuovo codice giuridico di negoziazione e di composizione delle crisi aziendali, è destinata, secondo le rilevazioni condotte, a riversarsi in misura relativamente maggiore sulle categorie delle attività di dimensioni piccole e micro, facendo decadere il mito della duttilità, elasticità e adattabilità di mercato delle stesse, e ciò a causa della spirale oramai incontrollabile – e ancora non immaginabile subito dopo la fine del picco pandemico nel 2021 – dei rincari energetici e delle materie prime.

Il grafico e la mappa geografica delle imprese a rischio (fonte: dossier Cerved)
In altri termini, per responsabilità dell’inflazione galoppante il cui contrasto, nella metà degli anni ottanta del secolo scorso (vigente il governo Craxi), non a caso pose le basi del secondo miracolo industriale dell’economia italiana, imperniato sull’ulteriore irrobustimento di pochi grandi gruppi e sulla fenomenologia, all’epoca del tutto nuova, di una rigogliosa architettura geograficamente distribuita di imprese, soprattutto piccole, preposte a presidiare le fasi più locali delle filiere occupazionali e produttive, e a fornire servizi e componenti ad alto valore aggiunto e distintivo ai beni industriali, altrimenti standardizzati, identificativi del made in Italy.Lo scenario peggiorativo porta il Cerved a contabilizzare che i lavoratori impiegati nelle società e nelle ditte a rischio maggiore di chiusura sarebbero 831.000, mentre altri 2,1 milioni sono quelli dipendenti da aziende definite fragili, che in caso di peggioramento del quadro macro economico e specificamente settoriale sarebbero chiamate a ridimensionarsi per scongiurare ipotesi di chiusure immediate.Il dossier individua in 111 le categorie merceologiche di attività segnate dalla più alta ricorrenza di aziende fragili o a rischio: dai trasporti, in specifico la gestione degli aeroporti, alla siderurgia, fino alla ristorazione, tutti ambiti contrassegnati dalla vocazione primaria dell’Italia a essere un Paese importatore e trasformatore di materie prime.
Sul fronte dell’impatto creditizio, il dossier Cerved stima in 107 miliardi lo stock dei finanziamenti bancari a rischio di incaglio o sofferenza
Passando a un monitoraggio territoriale del fenomeno della rischiosità, le aree macroregionali mostrano incidenze percentuali differenti sul livello di rischiosità delle imprese catalogate come società di capitale: dal 14,2 per cento del Nord Ovest al 12,6 del Nord Est, dal picco del 19,3 del Centro Italia (che non può più poggiarsi sulle sole performances della Capitale Roma) al 18,5 del Mezzogiorno.Sul parallelo versante delle esposizioni bancarie, in assenza di correttivi di parte istituzionale e governativa in termini di rafforzamento immediato del capitale circolante e delle garanzie sulla liquidità, la prospettiva è che 107 miliardi di euro di stock creditizi scivolino nella dichiarazione di incaglio, sofferenza e non recuperabilità, con conseguente necessità per le banche creditrici di operare le inevitabili svalutazioni per evitare bilanci fondati su un eccessivo peso specifico dei residui attivi. L’effetto sarà quello di un arretramento delle capacità di affidamento, se nel frattempo non cambieranno alcune direttive europee in tema di definizione dei cattivi debitori, e non si interverrà sul fondo di fideiussione patrimoniale delle PMI presso il ministero dello sviluppo economico e il mediocredito centrale.Come si è più volte detto, e come abbiamo argomentato in più occasioni sul nostro giornale, i fondi addizionali del piano di ripresa e resilienza, che applica pro quota gli aiuti del recovery fund post Covid della commissione europea, sono un’opportunità strutturale importante, ma i tempi e le procedure che essi richiedono impongono di fare in modo, a livello nazionale, che le Imprese, quelle in crisi ma con prospettive di mercato (che rimangono la maggioranza al netto degli shock energetici e delle materie prime), arrivino all’appuntamento con le serrande alzate.

L’editoriale di AZ

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...