Se fossero soltanto i diretti interessati a dirlo, ossia i debitori, sarebbe un conto, e si tratterebbe di una chiave di lettura decisamente molto parziale. Sta di fatto che ad ammetterlo è lo stesso Stato, per il tramite della propria magistratura contabile che ai sensi della Costituzione è la corte dei conti: su ogni cento euro di crediti vantati dalle pubbliche amministrazioni ai vari livelli istituzionali e territoriali, appena 3 possono essere effettivamente portati all’incasso. Non si tratta di uno scenario che si è aggravato in seguito alla pur gravissima emergenza prima pandemica e poi bellica: già prima dello scoppio della pandemia da coronavirus, al massimo il tasso di recupero delle somme contestate ai contribuenti del Belpaese non superava il 6 per cento del totale.
È la corte dei Conti, in sede di validazione del rendiconto generale dello Stato per il 2021, a certificare il fallimento del sistema di accertamento e riscossione, che riguarda la formazione non solo delle attività esattoriali ma anche di quelle di contabilizzazione del credito presunto vantato dall’amministrazione statale o da una sua articolazione territoriale: crollano infatti di oltre il dieci per cento i ruoli formalizzati dallo Stato, mentre addirittura aumentano di un quintuplo i mancati pagamenti appurati per quello che riguarda il capitolo dei contributi applicati dall’INPS e dovuti all’ente previdenziale pubblico.

A questo punto occorre una gigantesca operazione di verità: l’agenzia delle entrate per le riscossioni, che ai sensi della riforma dell’allora Governo Renzi ha preso il posto della precedente Equitalia, ha in deposito cartelle erariali e contributive per oltre 800 miliardi di euro, corrispondenti a crediti pregressi affidati dalle amministrazioni centrali e locali, le quali – ai fini della formazione dei rispettivi bilanci – hanno tutto l’interesse a iscrivere le somme di rispettiva competenza tra i residui attivi.
Questo meccanismo che è destinato ad auto incepparsi, anzi si è già auto inceppato, può essere risolto soltanto attraverso una straordinaria operazione di verità che passa sotto il nome di pace fiscale: quella che tutti sussurrano ma che nessuno sembra avere il coraggio politico di portare alle conseguenze esecutive. Eppure si tratta di una necessità assoluta al fine di consentire la ripartenza di attività fondamentalmente sane, che si collocano nel contesto dell’economia emersa e regolare, ma che non sono più in condizione di fare fronte alle prescrizioni di pagamento: d’altra parte, la crisi degli ultimi due anni ha rallentato non soltanto le attività produttive e aziendali, ma contestualmente ha inciso sull’andamento di quelle di competenza del ministero dell’economia e delle finanze per quello che riguarda la dinamica degli accertamenti calati addirittura del 77 per cento.
A questo punto, un provvedimento bilanciato non di condono ma di cambiamento di capitolo per quanto riguarda il modus operandi delle procedure fiscali, potrebbe svelare vantaggi certamente interessanti sia per le famiglie e le imprese, sia per la stessa amministrazione pubblica. Poiché il successo della delega tributaria passerà anche da qui.
L’editoriale di AZ