Lo schieramento politico del Presidente Macron viene sconfitto ai ballottaggi, molti ministri uscenti hanno dovuto subire l’onta della mancata rielezione. Eppure, i cittadini votanti d’oltralpe hanno dimostrato più saggezza di quanto in apparenza non sembri. Ecco perché, anche se prima di tutto è d’obbligo una premessa: quando a recarsi ai seggi è meno di un avente diritto su due, a perdere è l’arco costituzionale nel proprio insieme, poiché l’offerta politica corrente viene giudicata inadeguata nei confronti delle nuove e più drammatiche emergenze domestiche e internazionali, e non idonea a modificare in meglio la condizione di chi ha scelto di astenersi e di non partecipare al processo democratico.
Al netto di tale doveroso prologo, i Francesi hanno dimostrato saggezza nel complesso del comportamento espresso alle urne prima per le presidenziali e poi per le consultazioni parlamentari. Hanno scelto di relegare la destra populista all’opposizione, valorizzandone tuttavia quegli elementi di canalizzazione della protesta e del disagio sociale secondo il principio per cui “se la soluzione politica è sbagliata, la denuncia del sottostante problema è giusta poiché il disagio è reale”.
Per questo, come Capo dello Stato, hanno privilegiato la continuità rappresentata da Macron, un tecnocrate politicamente nato a sinistra con Francois Holland ma divenuto l’erede della tradizione gollista rimasta orfana di un leader dopo la debacle di Sarkozy allievo del compianto Chirac.
I votanti hanno successivamente articolato la propria preferenza alle elezioni per la Camera: hanno lasciato la maggioranza dei seggi, sebbene solo più relativa, ai macroniani, infliggendo una sonora punizione verso quei Ministri responsabili della crisi economico sociale seguita alla gestione della pandemia e del lockdown del 2020-21; in tal modo, comunque, il partito del rieletto Presidente della Repubblica conserva il diritto dovere di formare una diversa compagine esecutiva dotata di una più spiccata sensibilità sociale e meno incline ai diktat dei ragionieri di Bruxelles e delle agenzie di rating.
Per questo motivo, le preferenze uscite dalle urne hanno assegnato il secondo posto assoluto alla coalizione progressista di Jean Luc Melenchon, il Jospin del ventunesimo secolo che per pochissimo aveva mancato l’appuntamento al ballottaggio presidenziale, ma è stato puntuale a quello del secondo turno parlamentare. Il programma della sinistra che riunisce le anime del socialismo, del post comunismo e dell’ambientalismo, è imperniato sulla istituzione di un salario minimo, sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di tutele e sulla cancellazione del progetto di Macron di riforma delle pensioni.
Quale scenario è probabile in definitiva? Non è da escludere che le componenti più moderate e meno ortodosse del cartello elettorale di Melenchon decidano di avviare con il partito presidenziale un negoziato volto a condizionare, con propri ministri e punti programmatici chiave, la formazione e l’azione del futuro governo, avvicinandolo a quello di Olaf Scholz e introducendo anche oltralpe il salario minimo.
Attenzione, però: che ne sarà del trattato del Quirinale firmato da Draghi e da Macron e che puntava a creare un assetto di rapporti di forza, euro Mediterraneo, competitivo e collaborativo alla pari con quello nordico incardinato su Berlino?
Un punto è certo: tedeschi e francesi hanno voluto lasciarsi alle spalle l’eredità, non felice, delle intese tra Merkel e Sarkozy prima e tra Merkel e Macron poi, in quanto facendo leva sulla tecnocrazia e su un utilizzo nazionalista dello strumento Europeo, nei fatti hanno svuotato la UE, rendendola una unione puramente intergovernativa, soggetta al potere di veto del più piccolo degli Stati, dipendente dalle forniture energetiche e industriali di due regimi non democratici come Russia e Cina e schiacciato e irrilevante nel confronto tra Washington, Mosca e Pechino.
L’editoriale di AZ