Il salario minimo? Rischia di essere una trappola per tutti

L’adeguamento delle tutele retributive contro l’inflazione è una necessità che deve essere perseguita evitando diktat populistici non meno dannosi del già sperimentato reddito di cittadinanza. La Germania ha aperto la pista con una prima applicazione concreta, che in due passaggi condurrà dal prossimo autunno alla fissazione di 12 euro di paga oraria minimale. La Commissione Europea di Ursula von der Leyen, quasi in una prova simultanea tra Berlino e Bruxelles, è riuscita a portare in approvazione una direttiva, più generica che generale, nella quale il concetto di retribuzione di base, sempre per ora lavorata, dovrà essere recepito da ogni singolo Stato in funzione delle caratteristiche economiche locali. In pratica, la fotografia della situazione odierna che lascia irrisolti i temi del dumping sociale entro i confini della UE.

In ogni caso, la via è tracciata, nel bene così come nel male. Il salario minimo si prepara a diventare un tema dominante da qui alla campagna elettorale del prossimo anno. Occorre però prestare la massima attenzione sul piano applicativo, perché il boomerang è dietro l’angolo, e il diavolo si nasconde sempre nei dettagli, come recita un antico adagio: la fissazione di un tetto salariale di dignità, al di sotto del quale non si può procedere alla stipula di un rapporto di lavoro, è una necessità in un continente come l’Europa e in un Paese come l’Italia dove il lavoro è una condizione necessaria ma non più sufficiente a fuoriuscire dal cono d’ombra della povertà relativa.

Basta però analizzare meglio lo scenario tedesco per comprendere che le insidie non sono meno rilevanti dei benefici stimati. In territorio teutonico, infatti, la fissazione dei tetti retributivi viene stabilita da una commissione paritetica fra organizzazioni datoriali e rappresentanze del lavoro dipendente, che determina i livelli economici delle buste paga con efficacia erga omnes, cioè universale. A Berlino, detta commissione stava avvicinandosi di molto, e senza necessità della legge del governo rossoverde di Olaf Scholz, alla deliberazione dei 12 euro orari, la cui decretazione adesso è pertanto avvenuta per ragioni più politiche che non pratiche di tutela impellente del potere d’acquisto delle buste paga.

Inoltre, il sistema industriale tedesco è in una condizione di occupazione satura, con i tre quarti di popolazione in età lavorativa che dispone di un impiego, a fronte di un 50 per cento riscontrato in Italia. L’approvazione del salario minimo, che avverrà in due gradini progressivi, non impatterà in misura sostanziale sui costi di produzione, poiché in Germania il sistema delle fabbriche può contare su fattori di esternalità – dalle infrastrutture alla pubblica amministrazione, dalla tassazione all’istruzione scolastica professionale – che ne riducono i costi impropri accrescendo la produttività (ossia il valore aggiunto aziendale per ogni lavoratore addetto) ai massimi.

Olaf Scholz e il suo predecessore socialdemocratico Gerard Schroeder: il secondo ha liberalizzato mercato del lavoro e salari, il primo si appresta a ripristinare le tutele minime venute meno per 6 milioni di lavoratori Tedeschi

L’applicazione della retribuzione cosiddetta non comprimibile, pertanto, riguarderà 6 milioni di lavoratori appartenenti ai settori già di per se stessi non delocalizzabili, con benefici economici per un totale di quasi 5 miliardi di euro di maggiore potere d’acquisto che beneficerà le esportazioni Italiane verso Berlino.
Quali sono quindi i rischi per il nostro Paese, e per il Sud Europa in genere? Anzitutto, che il precedente del governo Scholz rafforzi il fronte di chi, specialmente in vista delle elezioni politiche del prossimo anno, spinge per l’adozione di un provvedimento analogo nella Penisola, con effetti che, in assenza di correttivi fiscali, rischiano di essere più favorevoli alle casse dell’erario che non ai portafogli delle famiglie dei lavoratori interessati.

Forse sarebbe il caso di riprendere concetti dimenticati come quello di fiscal drag o drenaggio fiscale, ossia la quota progressivamente erosa dalle imposte al crescere nominale dello stipendio.
Inoltre, mentre in Germania il costo del lavoro è quasi del tutto assorbito dalla maggiore efficienza dei sistemi esogeni – infrastrutture, servizi pubblici, formazione professionale e monitoraggio tributario attraverso i Land – in Italia gli oneri produttivi si riverserebbero tutti sui prezzi finali al dettaglio rendendo così ancora meno competitivi i nostri beni e servizi.

Infine, fattore forse più importante di tutti i precedenti assommati, la legalizzazione del salario minimo smonterebbe quel poco che resta del nostro patrimonio di relazioni industriali e di contrattazione collettiva, la cui funzione non è solo quella di fissare una paga oraria non comprimibile, ma si estende alla determinazione delle voci accessorie e complementari al pieno recupero dell’inflazione, all’integrazione del welfare dentro l’azienda, all’incentivazione della produttività e del merito professionale. Sarà una legge a decidere per ognuna di queste voci di rilevanza pari o superiore al tema della retribuzione oraria di base?

L’editoriale di AZ

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