Con Melenchon la Francia si tinge di rosso e prova a creare l’asse del salario minimo con la Germania

Oltralpe il primo turno delle elezioni legislative ha certificato le attese della vigilia, e sancito il progressista tradizionalista Jean Luc Melenchon come reale antagonista del riformista tecnocrate Emmanuel Macron rieletto due mesi fa al vertice dell’Eliseo. Nuovamente sconfitta la populista di destra Marine le Pen, che già al primo turno delle popolari presidenziali aveva rischiato di lasciare il secondo posto allo stesso Melenchon, e che ora si appresta sì a portare al Parlamento nazionale un più alto numero di parlamentari ma soltanto con la prospettiva di essere il terzo incomodo tra il centrismo di Macron e il socialismo radicale del suo avversario.

Melenchon ha dato vita a una sorta di unione in stile Prodi del 2006, ovvero di campo largo in linea con i desiderata di Letta e Conte per il 2023. Dal punto di vista della politologia francese contemporanea, tuttavia, tale rassemblement altro non è se non la riedizione di quanto riuscì nel 1997 all’allora leader socialista Lionel Jospin con la creazione di uno schieramento tra socialisti, comunisti, ecologisti; dall’altra parte, gli antagonisti erano i gollisti dell’allora presidente Jacques Chirac, maestro politico di quel Sarkozy che avrebbe condotto la coalizione moderata di centrodestra alla catastrofe preparatoria all’avvento del populismo della le Pen e del Macronismo.

Va da sé che Macron è stato molto abile a capitalizzare la profonda crisi di credibilità delle due famiglie politiche tradizionali sorte dalle ceneri del secondo dopoguerra: se i repubblicani di Sarkozy erano al lumicino, consegnando l’Eliseo al PS di Francois Holland, anche i socialisti erano destinati al tracollo per gli errori umani e politici del suo gruppo dirigente. Cosicché Macron, giovane pupillo del riformismo, si presentò cinque anni fa come unico elemento di novità in grado di unire su di sé repubblicanesimo e progressismo moderato, avendo come alternativa l’anti UE Marine del vecchio Front National.

Melenchon, cogliendo l’occasione del calo di popolarità di Macron a seguito della crisi pandemica e della riforma previdenziale richiesta da Bruxelles, ha restituito alla sinistra classica una robusta iniezione di ossigeno, sfiorando il ballottaggio alle presidenziali di due mesi fa e centrandolo in pieno alle elezioni politiche di questa domenica appena conclusa.
Melenchon intende seguire le orme, più che di Enrico Letta (che la Francia la conosce bene), del cancelliere tedesco Olaf Scholz, tanto che in cima al programma elettorale, premiato da molti votanti d’oltralpe, oltre all’abbandono della riforma previdenziale spicca l’introduzione del salario minimo assieme alla riduzione dell’orario di lavoro come strumento per aumentare la quota di popolazione attiva occupata.

Questo mentre il partito di Macron è costretto a rinviare di una settimana la conoscenza del proprio futuro parlamentare, con tutti e 15 i ministri uscenti costretti al secondo turno e la prospettiva di una saldatura populista tra destra e sinistra contro il rieletto inquilino dell’Eliseo.

L’asse franco tedesco, sinonimo di austerità (per gli altri Paesi UE), diventerebbe in caso di premierato di Melenchon, e di coabitazione con Macron erede di fatto del gollismo di Chirac, l’asse del nuovo welfare retributivo del vecchio Continente. Asse al quale si aggiunge pure la Spagna del socialista Pedro Sanchez che pur non avendo introdotto il salario minimo ha focalizzato la politica fiscale concentrando tutti gli incentivi sui contratti di lavoro a tempo indeterminato, rendendo più onerose le formule occupazionali atipiche e a termine.

La vittoria di Melenchon aumenterebbe pertanto le pressioni politiche per il 2023 verso l’accelerazione netta a favore della istituzione di una paga oraria di base per legge pure nel nostro Paese. Come è stato più volte ricordato, ciò potrebbe tradursi tuttavia in un autogol: Francia e Germania dispongono di sistemi industriali che consentono, grazie a una maggiore partecipazione al mercato del lavoro tutta una serie di esternalità più efficienti, di riassorbire nella produttività ulteriori aumenti del costo degli stipendi senza traslare in toto gli stessi sui prezzi finali.

L’Italia viceversa, per effetto dei vigenti meccanismi fiscali e delle note diseconomie sistemiche, nonché di normative molto più deboli nel contrasto alle delocalizzazioni, è chiamata a seguire delle soluzioni diverse per conseguire gli stessi doverosi obiettivi di tutela dei redditi personali e familiari contro l’inflazione, puntando su relazioni sindacali più dinamiche e inclusive e su un diverso e meno pressante trattamento fiscale dei salari dalle cui ritenute Irpef e Inps dipende la maggioranza del gettito erariale e contributivo dello Stato.

L’editoriale di AZ

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