Se l’autunno si prospetta caldo sul fronte delle bollette e dei prezzi di energia e materie prime, l’estate presenta fin da ora il conto delle mancate riforme in campo tributario: famiglie, imprese, enti e associazioni e le stesse amministrazioni pubbliche, per paradosso solo apparente, sono chiamate a fare fronte a oltre 140 scadenze fiscali, in termini di versamenti monetari e adempimenti dichiarativi, alle quali si aggiungono gli obblighi derivanti dalle imposizioni di competenza regionale e locale divenute nel corso degli ultimi vent’anni delle voci sempre più onerose sui redditi e nei bilanci domestici e aziendali.
Si tratta di obblighi ai quali si dovrà fare fronte entro la fine del mese di giugno alle porte, che inizia con la festa della Repubblica ma si conclude con una festa solo per le casse di un Erario, centrale e territoriale, tornato esigente agli stessi livelli di prima dello scoppio dell’emergenza pandemica di marzo 2020.
L’ingorgo è dovuto a una molteplicità di concause, prime fra tutte la riattivazione delle ordinarie scadenze e la venuta meno delle clausole sospensive che avevano consentito il differimento dei versamenti tributari durante la prima e la seconda ondata di coronavirus.
A queste due circostanze si deve aggiungere quella che non consente la piena conoscibilità e fruizione della legge 3 del 2012, la cosiddetta legge Monti su esdebitazione ed esdebitamento che ammette, a specifiche condizioni, la cancellazione o l’abbattimento drastico di debiti anche erariali e contributivi. Alla promozione di questa norma, che avrebbe carattere riabilitativo nei confronti del contribuente, l’amministrazione dello Stato e lo stesso livello politico – omettendo naturalmente di precisarlo durante le campagne elettorali – preferiscono reiterare le poco efficaci disposizioni in tema di rottamazione delle cartelle esattoriali, pur sapendo che un debitore su due non sarà mai in grado di onorare le rate successive alle prime.
Il difetto dell’ordinamento, e di conseguenza dell’organizzazione della macchina fiscale, è di una evidenza lampante e costituisce un autentico peccato originale: equiparare un cittadino, o imprenditore o professionista insolvente – sebbene dichiarante a tutti gli effetti – a un evasore totale, stabilendo un trattamento sanzionatorio sproporzionato e destinato a propria volta a produrre ulteriori morosità.

Una questione sorge in tutta la propria ovvietà disarmante: la tanto declamata e invocata digitalizzazione, nulla può se dietro il monitor o il display di un personal computer o di uno smartphone, i procedimenti burocratici rimangono gli stessi e l’apparente unitarietà si sfalda un istante dopo negli infiniti rivoli di uffici che dietro PIN e password vogliono conservare intatte le rispettive prerogative di discrezionalità; si tratta di una illusione analoga a quella che, vent’anni fa, accompagnò la costituzione degli sportelli unici comunali, oltrepassati i quali il frazionamento tornava a regnare sovrano.
La delega fiscale, della quale tanto si discute e che ha rischiato di portare il governo Draghi sugli scogli di una crisi politica per la incorporata revisione del catasto – un falso problema poiché nel corso degli anni la collaborazione tra uffici erariali e demaniali statali e amministrazioni comunali ha consentito un aggiornamento di fatto dei valori estimativi – deve anzitutto essere una delega di civiltà: molti adempimenti possono essere accorpati e ridotti senza causare riduzioni di gettito, anzi beneficiando le attività economiche e lavorative dei contribuenti ai quali si può prospettare a livello macroeconomico una parità di prelievo ma con un diverso impatto distributivo e in un contesto funzionale a semplificare l’avvio e lo svolgimento di progetti di investimento così come dell’ordinaria gestione aziendale, lavorativa e professionale, con effetti benefici sul fronte della produttività che è la vera emergenza del sistema Italia.
L’editoriale di AZ