Bce, inevitabile oramai la svolta estiva sui tassi contro il surriscaldamento dell’inflazione

Dalla presidente Christine Lagarde al finlandese Olli Rehn fino all’italiano Ignazio Visco, sembra ormai compatto il fronte favorevole a un aumento, entro la fine di luglio, del costo del denaro per opporre un argine alla spirale dei rincari seguiti alla guerra russa in Ucraina. Le future e imminenti scelte di politica monetaria si devono confrontare con l’avvio di una fase in cui i governi non potranno più contare sugli strumenti di liquidità accomodante del quantitative easing e del piano antipandemico di acquisto massivo dei titoli obbligazionari sovrani.

Si riprospetta un aumento dello spread tale da mettere il debito pubblico in concorrenza con gli strumenti di raccolta delle banche: e se rilanciassimo la proposta del Banchiere internazionale Beppe Ghisolfi di utilizzare una quota di obbligazioni statali di nuova emissione come mezzo per convogliare, in modo assolutamente volontario e incentivato, parte dei risparmi familiari verso progetti di investimento strategico per completare il Pnrr?

Si parla della terza settimana di luglio, come termine nel quale dovrebbe essere adottata, dal direttivo della Banca centrale europea di Francoforte, la manovra di aumento del tasso di sconto nella misura di 50 punti base, ossia di mezzo punto percentuale. Uno scenario che la presidente della Eurotower, Christine Lagarde, aveva cercato di posporre al massimo il più possibile, al fine di evitare un corto circuito sul fronte della liquidità circolante in un momento nel quale le conseguenze della pandemia non sono ancora state riassorbite del tutto e il quadro di livello “macro” è tornato seriamente a deteriorarsi a causa dell’aggressione russa all’Ucraina; e in una fase, avallata oltre Atlantico dai provvedimenti precursori della Federal reserve di Jerome Powell, contrassegnata dal mancato rinnovo del diretto intervento delle Banche centrali come grandi acquirenti di obbligazioni statali.

Mario Draghi e Christine Lagarde, presidenti della BCE tra il 2011 e il 2019 e dal 2020: il primo ha inventato il quantitative easing, la seconda si appresta ad archiviare l’intervento diretto della Eurotower sul mercato dei titoli di Stato

La necessità di cercare di circoscrivere una spinta inflattiva a carattere esogeno, cioè importata da fattori esterni come gli approvvigionamenti energetici e combustibili, rimette quindi in campo il ritorno della BCE come originario istituto custode della stabilità dei prezzi e della massa monetaria circolante, a conferma di quanto la fase espansiva inaugurata da Mario Draghi, predecessore di Lagarde, avesse una valenza storica delimitata ed eccezionale, sebbene non nei desiderata di molti governi nazionali a partire da quelli dell’Europa del Sud.

La previsione, fatta propria dagli analisti e recepita altresì dagli andamenti dell’euribor, il tasso di riferimento interbancario aggiornato quotidianamente dalla federazione bancaria europea e utilizzato come unità di misura per la definizione dei mutui casa a interesse variabile (si legga in proposito la bellissima definizione contenuta nel manuale Abbecedario di Beppe Ghisolfi), è quella che propende per più aumenti del tasso di sconto scaglionati in corso d’anno 2022. Il che avrebbe l’obiettivo di fare in modo che il controllo, necessario, del livello dei prezzi non coincida, stante una linea di confine molto delicata, con uno scivolamento verso la stagflazione (carovita persistente in quanto esogeno più stagnazione economica interna) o verso il calo drastico di investimenti, occupati e consumi (che invece sono elementi tipici della deflazione).

In ogni caso, la via è tracciata: di politica economica torneranno a occuparsi in via pressoché esclusiva i singoli governi nazionali e la commissione Europea, utilizzando strumenti di bilancio e politiche fiscali che, ancora per tutto il 2023 come annunciato dal commissario di Bruxelles agli affari finanziari Paolo Gentiloni, potranno contare sulla sospensione dei vincoli del patto di stabilità e del fiscal compact, sebbene un tale provvedimento vada a beneficio anzitutto delle economie del Nord dove il rapporto tra debito pubblico e PIL è più gestibile o in cui i debiti sovrani sono meglio ripagabili in quanto storicamente impiegati non in spesa corrente ma in investimenti infrastrutturali.

L’Italia, che può contare su un sistema produttivo a trazione esportatrice, ha molto poco da guadagnare da politiche monetarie orientate a rendere più oneroso il ricorso al credito bancario e senza che la ridotta liquidità circolante incida con efficacia su prezzi determinati oramai da quotazioni su mercati con sede in Olanda o negli Stati Uniti d’America come nel caso del gas, del petrolio, dei cereali.
Se l’inflazione è un fattore erosivo del risparmio, essa rappresenta una tassa impropria al pari dello spread determinato da un più alto costo del debito pubblico che – a questo punto come argomentato brillantemente dallo stesso Banchiere internazionale Beppe Ghisolfi – può svolgere un ruolo decisivo di operazione fiducia convogliando in maniera spontanea e incentivata una quota di risparmi familiari verso investimenti industriali complementari all’attuazione puntuale del Pnrr, il piano nazionale di utilizzo dei fondi europei entro il 2026.

L’editoriale di AZ

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